La vera notizia non è la tregua di due mesi (iniziata il 2 aprile, insieme al Ramadan) nella guerra in corso in Yemen. Se verrà rispettata, darà respiro al Paese e ai suoi abitanti stremati dal conflitto. Ancor più rilevante è però il tweet compiaciuto di Khalid bin Salman, fratello del principe saudita Mohammad e ministro della Difesa, che annuncia le dimissioni del presidente yemenita Abbu Mansour Hadi (76 anni) e dà il benvenuto al Consiglio presidenziale, un organo collegiale composto da otto ministri designati da Hadi stesso che – dice Khalid – «rappresenta un nuovo capitolo firmato dagli yemeniti per prendersi la responsabilità di costruire un futuro felice e pacifico per lo Yemen».
Le dimissioni del presidente
La notizia, per un governo yemenita ormai privo di ogni credibilità, soprattutto in seno alla nazione, ha generato una tempesta di ilarità su Twitter: gli yemeniti ricordano bene che dopo la rivoluzione del 2011 che destituì l’ex presidente Al Abdullah Saleh per portare il Paese a una nuova costituzione e a nuove elezioni – attraverso la conferenza di Unità nazionale, fortemente voluta dalle Nazioni Unite, dall’Europa e dall’allora presidente statunitense Barack Obama – Abbu Mansour Hadi, ex delfino di Ali Abdullah Saleh, diventò presidente ad interim. La sua transitoria permanenza al potere sarebbe dovuta durare non più di due anni e invece si è prolungata per un decennio, con effetti sulla governabilità e sulla reputazione del Paese francamente disastrosi, nonostante il riconoscimento internazionale del «presidente legittimo».
Ciò che gli yemeniti non perdonano a Mansour Hadi è la sua doppia fuga. La prima da Sanaa’a, quando i ribelli Houthi presero la capitale nel 2015, costringendo Hadi e il suo governo a fuggire a Sud, dove Aden fu dichiarata capitale temporanea del Paese. La seconda fuga imperdonabile è quella da Aden nel luglio 2015 quando, assediata sempre dai ribelli Houthi e prima della sua liberazione – costata molto tempo, sforzo, munizioni e morti alla Coalizione araba a guida saudita – Hadi si affrettò a salvarsi la pelle a Riyadh – dove poi è rimasto quasi stabilmente – lasciando il figlio a gestire gli affari interni, con risultati che irritarono soprattutto gli emiratini, responsabili della sicurezza della città e del controllo dei suoi confini marittimi.
Esce di scena anche il vice
Nell’annuncio di rinuncia alla presidenza, il 7 aprile scorso, Hadi ha anche dato la notizia del licenziamento del suo vicepresidente, il generale di brigata Ali Muhsin al-Ahmar. L’alto ufficiale è un parente del defunto presidente Saleh e, sotto il suo governo, è diventato una figura molto temuta. In un cablogramma diplomatico nel 2005, l’ambasciatore degli Stati Uniti Thomas C. Krajeski lo descriveva come «il pugno di ferro di Saleh». Il diplomatico aggiungeva che Ali Muhsin era stato «uno dei principali beneficiari del contrabbando di diesel negli ultimi anni» e sembrava aver «accumulato una fortuna nel contrabbando di armi, generi alimentari e prodotti di consumo».
Il memorandum lo descriveva anche come «uno stretto collaboratore» di Faris Manna, il più famoso trafficante d’armi dello Yemen. Sul fronte religioso, Ali Muhsin aveva legami salafiti-wahabiti di lunga data.
Con Hadi e il suo vice apparentemente in disparte, il piano incoraggiato dai sauditi è il subentrante Consiglio presidenziale. Questo dispositivo di condivisione del potere è stato spesso utilizzato in passato, in forma di triumvirato, quando lo Yemen ha dovuto affrontare problemi politici, con risultati contrastanti. Per esempio, nel 1978, dopo l’assassinio del compianto nel presidente Ahmed al-Ghashmi e nel 1990, durante l’unificazione del Nord del Paese con la Repubblica Democratica Popolare dello Yemen meridionale. L’ultimo triumvirato portò rapidamente Ali Abdullah Saleh a un potere quasi assoluto.
Un organo collegiale difficile da tenere insieme
Stavolta, il consiglio prescelto è un frankenstein politico in salsa yemenita. Al suo interno sono rappresentati solo elementi anti-Houthi: in teoria questa combinazione dovrebbe creare un’opportunità per mettere ordine nello Yemen «legittimato» del Centro-Sud e potrebbe plausibilmente preparare la strada a una soluzione politica per l’intero Paese. Ma la logica suggerisce di essere tutt’altro che ottimisti. I consigli presidenziali sono nel migliore dei casi creazioni ingombranti, ma questo è un tentativo, forse un ultimo disperato sforzo, di ricostituire qualcosa di simile all’unità nazionale all’interno dell’alleanza anti-Houthi.
Il problema è che non è chiaro come questi otto membri, molti dei quali hanno opinioni diametralmente opposte, possano lavorare insieme. Il capo del consiglio è Rashad al-Alimi di Taiz, già ministro dell’Interno sotto il defunto presidente Saleh. Altri membri sono Sultan al-Iradah, governatore di Marib, membro di Islah (l’equivalente yemenita dei Fratelli musulmani), il cui fratello, Khaled, è stato sanzionato dagli Stati Uniti per presunti legami con al-Qaeda; Abdullah al-Alimi, un altro membro di Islah, che era direttore dell’ufficio di Hadi; Aydarus al-Zubaydi, capo del Consiglio di transizione meridionale che sostiene uno Stato meridionale indipendente; Tariq Saleh, nipote del defunto presidente. Era alleato degli Houthi fino a quando non hanno ucciso suo zio nel dicembre 2017. Fa parte del consiglio anche Faraj al-Bahsani, il governatore dell’Hadramaut. Come Saleh e Zubaydi, anche lui è sostenuto dagli Emirati Arabi Uniti. Abd al-Rahman Abu Zara’a è un’altra figura affiliata agli Emirati Arabi Uniti. Comanda la brigata Amaliqa (“I Giganti”) che è stata determinante nell’allontanare gli Houthi dal governatorato di Shabwa all’inizio di quest’anno. L’ottavo membro proviene da Sa’ada, territorio controllato dagli Houthi nell’estremo Nord ed è Othman Mujali, uno sceicco che ha sostenuto in passato il presidente Saleh e ha legami con l’Arabia Saudita. Le possibilità che questi otto lavorino insieme in modo coeso sembrano remote o inesistenti.
I contorni della fragile tregua
Se così fosse, ha ragione di esultare l’Arabia Saudita che ha provveduto a dotare il Consiglio di un extra budget da tre miliardi di dollari, per i quali il Consiglio dovrà sempre rendere conto all’alleato saudita, dipendendone politicamente. Tutto questo nel quadro di una tregua firmata a Riyadh da tutte le parti in guerra con un convitato di pietra – sempre lo stesso – gli Houthi che si sono rifiutati di presentarsi perché il suolo saudita è «luogo non neutrale per degli accordi di pace». Al momento, dunque, si temporeggia e probabilmente si affilano le armi per round di guerra ulteriori alla conquista del governatorato del Marib, rispetto al quale nessuno vuole cedere, in quanto sede di quasi tutti i giacimenti petroliferi del Paese.
Di fatto, per ora le parti hanno accettato di fermare tutte le operazioni militari offensive aeree, terrestri e marittime all’interno dello Yemen e oltre i suoi confini; hanno anche concordato che le navi per il rifornimento entrino nei porti di Hodeidah e che alcuni voli commerciali operino da e per l’aeroporto di Sana’a con destinazioni predeterminate nella regione, maggiormente in direzione Iran. Così riferisce l’inviato speciale delle Nazioni Unite Hans Grundberg che ha faticato non poco per replicare condizioni prima verificatesi solo nel 2016. Nel frattempo, la situazione dei civili resta disastrosa: le Nazioni Unite da tempo avvertono che la guerra in Yemen ha causato la peggiore crisi umanitaria del mondo e, secondo il Programma alimentare mondiale (Pam), circa 16,2 milioni di yemeniti, ovvero il 45 per cento della popolazione, rischiano la fame, aggravata – anche qui – dalle ricadute della crisi russo-ucraina, sulle importazioni di grano che costituiscono il 40 per cento del fabbisogno ordinario dello Yemen.