Dipinti, sculture, abiti ricamati, installazioni per raccontare la storia dei palestinesi attraverso l’arte: è l’obiettivo della mostra From Palestine With Art (dove Art richiama, per assonanza, anche Heart, cuore – ndr) uno degli eventi collaterali della 59.ma Esposizione Internazionale d’Arte della Biennale di Venezia, aperta al pubblico dal 23 aprile dopo essere stata rinviata nel 2021 a causa del Covid. «La Biennale Arte di Venezia è l’Everest degli artisti. Siamo molto onorati di essere presenti ad uno degli eventi più importanti al mondo dedicati all’arte contemporanea», spiega Faisal Saleh, fondatore e direttore del Palestine Museum US, con sede in Connecticut, selezionato per allestire la mostra (curata da Nancy Nesvet). «Anche i palestinesi, come tutte le altre persone del mondo, fanno arte. Questa è l’occasione giusta per mostrare quello che siamo capaci di creare».
Sparsi nel mondo
Faisal Saleh ha 70 anni. Nato a Ramallah, si è trasferito da giovane negli Stati Uniti per completare gli studi, e nel 2018 ha deciso di dedicarsi a tempo pieno al museo e alla promozione della cultura del suo Paese d’origine. «Anche alcuni miei fratelli si sono spostati negli Stati Uniti – racconta – mentre i miei genitori, originari di un paesino vicino a Jaffa (oggi a sud di Tel Aviv – ndr) e costretti a fuggire ad est nel ’48, sono morti a casa di un parente ad Abu Dhabi. È una storia simile a quella di tante altre famiglie palestinesi, oggi sparse per il mondo».
In effetti, i 30 oggetti d’arte realizzati da 19 artisti palestinesi ed esposti nei locali al secondo piano di Palazzo Mora, tra le calli veneziane, nascono in posti del mondo diversi. Da New York provengono le tinte forti di Samia A. Halaby, 85 anni e oltre 60 di attività artistica alle spalle con esposizioni di livello internazionale, presente con un dipinto di pittura astratta realizzato proprio in occasione della Biennale; dal Libano la fotografia di Rania Matar che ritrae sulle rive del Mediterraneo una giovane palestinese di un campo profughi libanese; la pittura e la scultura di Mohammed Alhaj, invece, arrivano dalla Striscia di Gaza.
La tradizione del ricamo
Quello proposto a Venezia fino al 27 novembre è un variegato mix di espressioni artistiche, che non dimentica il ricamo, una delle più tipiche forme di arte tradizionale palestinese, ancora diffusa nei villaggi della Cisgiordania: a seconda dei disegni riprodotti sugli abiti con questa tecnica è possibile riconoscerne la provenienza.
Al centro della mostra il grande ritratto di un paesaggio naturale opera di Nabil Anani, volto noto tra gli artisti palestinesi. «È il tipico panorama della Palestina fatto di colline verdi, di pietre e di ulivi – spiega Faisal – anche se ormai, purtroppo, è difficile trovare uno spazio così ampio privo di un insediamento israeliano». La storia recente si fa inevitabilmente sentire anche quando si scorge la riproduzione, curata da Salman Abu Sitta, di una grande mappa della Palestina datata 1877, che copre un angolo del pavimento. «Riporta i nomi di moltissimi villaggi che oggi non ci sono più – osserva Faisal –. I discendenti delle famiglie palestinesi che verranno a visitare la mostra potranno chinarsi e ritrovarli. Poco distante abbiamo messo anche un piccolo albero di ulivo da cui pendono delle chiavi, simbolo del “diritto al ritorno” che i palestinesi rivendicano per quelle case distrutte nel 1948 e nel 1967, in aree da cui migliaia e migliaia di persone sono dovute fuggire».
Arte strumento di pace
«Abbiamo voluto unire nomi noti ad artisti emergenti, autori di diverse età – conclude Faisal –. Se sono cristiani o musulmani? Non lo so dire per tutti. Qui ciò che conta è la dimensione dell’arte, uno strumento pacifico per raccontare la nostra gente al di là delle cronache del conflitto. Insieme anche un potente mezzo di comunicazione in grado di raggiungere il cuore delle persone. Alcuni di questi quadri hanno un valore di mercato significativo: nei mesi di apertura della mostra contiamo di trovare acquirenti, in modo da aiutare artisti che si trovano spesso in situazioni di ristrettezza economica e contribuire così a sostenere l’arte palestinese».
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