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A Mosul rinascono le chiese, ma mancano i cristiani

Elisa Pinna
2 aprile 2022
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È trascorso poco più di un anno dal viaggio di papa Francesco in Iraq. Nella Piana di Ninive il clero è tornato e le chiese vengono restaurate, una ad una. Le famiglie cristiane, però, ancora non tornano, frenate, come sono, da paure e risentimenti. Il cristianesimo a Mosul rischia di estinguersi?


Lo scorso anno, nel marzo 2021, papa Francesco pregò davanti alle macerie del monastero di San Giorgio a Mosul, distrutto e profanato dai miliziani dello Stato islamico. Oggi le due cappelle del convento, dove generazioni di cristiani iracheni, dal XVI secolo in poi, hanno ricevuto il battesimo ed hanno vissuto la loro vita religiosa, sono tornate pienamente agibili, mentre i lavori di ricostruzione – si legge nei giornali iracheni – proseguono nelle altre ali del complesso.

Il monastero, dal 2014 al 2017, era stato trasformato dall’Isis in un carcere per i prigionieri della minoranza yazida e una stanza era stata utilizzata come moschea. Solo per un caso, prima che arrivassero i jihadisti, due religiosi erano riusciti a fuggire, portandosi dietro qualche oggetto sacro e antichi manoscritti. Per il resto tutto era stato saccheggiato, persino i marmi delle tombe del vicino cimitero, che ancora appare come una pietraia dissestata. «Qui sono seppelliti anche mio padre e una mia sorella», racconta, il giovane abate, Samer Soreshow Johanna. È tornato a Mosul per coordinare la ricostruzione dei luoghi dei cristiani caldei, da secoli parte integrante del paesaggio della città e della Piana di Ninive.

Si calcola che i fondamentalisti dell’autoproclamato Califfato nero, nella loro furia contro le minoranze religiose, abbiano distrutto e vandalizzato decine di chiese e monasteri caldei. Alcuni non potranno più essere rimessi in piedi, ma per altri si lavora a pieno ritmo, grazie a fondi arrivati dall’estero e, soprattutto nell’ultimo anno, dagli Stati Uniti. Da poco è stata inaugurata anche un’altra chiesa-simbolo, dedicata a san Paolo apostolo nel centro di Mosul, con una messa celebrata dal vescovo Najib Mikhael Moussa, a cui hanno partecipato – come per gli eventi più solenni – le autorità musulmane locali e rappresentanti dell’esercito iracheno.

Le chiese dunque riaprono: il problema, nessuno lo nasconde, è che sono vuote. Ben pochi cristiani, infatti, sono tornati. La loro fuga dall’Iraq e in particolare dalla Piana di Ninive e da Mosul era cominciata ben prima che l’Isis prendesse il potere. È dal 2003 – dall’invasione a guida statunitense –, dallo spodestamento del rais Saddam Hussein e dallo scoppio della guerra civile, che la minoranza cristiana ha iniziato ad assottigliarsi. Nei primi anni di questo secolo, abitavano in Iraq 1 milione 500 mila cristiani, su una popolazione di 25 milioni. Oggi si calcola che ne siano rimasti non più di 400 mila, su una popolazione cresciuta a 40 milioni di persone. Nella città di Mosul, nel 2003, vivevano 24 mila cristiani. Dopo l’occupazione dell’Isis, sono tornati in 350: si tratta per lo più di uomini di affari, agricoltori che vogliono riprendere a coltivare i propri campi, anziani rimasti per anni – nelle turbolenze della guerra – senza pensione e che vogliono cercare di riottenerla.

Nel villaggio interamente cristiano di Karamlesh, abitato da 1.400 famiglie prima dell’arrivo dei miliziani dell’Isis, ne sono rientrate solo 190. Molti cristiani della Piana di Ninive hanno ricostruito la loro vita nella vicina provincia curdo-irachena. Il grosso si concentra oggi nella cittadina di Ankawa, un’enclave di Erbil. Hanno paura a tornare, qualcuno preferisce magari fare il pendolare: ogni giorno si reca per lavoro a Mosul, per poi rientrare la sera in zone percepite come più amichevoli. In un primo tempo anche il clero caldeo di Ninive si era trasferito in blocco nell’area di Erbil. Poi, con la visita del Papa, è arrivata la decisione di ricostruire le chiese. I preti sono tornati prima dei fedeli. I luoghi sacri cristiani hanno ripreso forma. Padre Boulos Thalet Habib, vice-abate del monastero di San Giorgio è convinto che sia la strada giusta da seguire. «Nella mentalità irachena – spiega intervistato dai media locali – si cerca di cancellare in fretta i segni delle passate tragedie, ricostruire significa liberarsi dagli incubi e vivere più serenamente il presente. Inoltre è necessario contrastare l’idea che la storia dei cristiani iracheni sia arrivata a un capolinea, così come accadde negli anni del dopoguerra per un’altra minoranza importante, ovvero quella ebraica (la cui consistenza numerica, nel 1948, si aggirava sulle 150 mila persone e di cui non sono rimasti che due o tre anziani – ndr.) La storia stavolta non si deve ripetere. Le chiese devono rimanere nel paesaggio iracheno».

Quanto al ritorno dei cristiani a Mosul, è difficile fare previsioni. A bloccarli non è solo la paura di nuove violenze fondamentaliste: tra molti vi è anche un senso di tradimento da parte dei loro ex vicini musulmani che, durante il periodo dell’Isis, hanno approfittato delle case vuote, si sono impossessati dei campi abbandonati. «I ponti – dice padre Boulos – sono molto più difficili da ricostruire. Mosul deve riconquistare, dopo tanti anni, il senso della convivenza e delle diversità. È un bene per i cristiani, ma anche per i musulmani, e il senso di rinascita di questi ultimi mesi, di cui è un esempio anche la riapertura dell’antica biblioteca universitaria, può aiutare».

Il clero di Mosul e Ninive spera che la ricostruzione delle chiese possa rassicurare i fedeli emigrati nel Kurdistan iracheno e costituire «un raggio di speranza». È però troppo presto per vedere gli effetti. Il vice abate di San Giorgio si limita a parlare della sua famiglia: «Mia madre vorrebbe che le comprassi una casa ad Ankawa, nell’enclave di Erbil. Mia sorella è però venuta a trovarmi già cinque volte». Chissà che non decida di rientrare a Mosul con la sua famiglia.

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