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Samah, tessera scomoda del puzzle israeliano

Manuela Borraccino
4 marzo 2022
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È tra i dirigenti del villaggio Neve Shalom Wahat al-Salam e ha fondato l’associazione femminista araba Na’am. Samah Salaime lotta da anni per rafforzare la condizione delle donne in Israele ed estirpare la piaga delle violenze domestiche.


È attaccata dal suo stesso popolo palestinese perché vive e lavora fianco a fianco con gli ebrei e invisa a questi ultimi perché porta avanti senza sosta le istanze degli arabi israeliani, anzi delle arabe. «Prima di rispondere alle critiche cerco sempre di valutare da chi provengono: la mia è una battaglia di civiltà e di giustizia» dice Samah Salaime. «Mi sforzo di argomentare le mie posizioni sulla base dei principi dei diritti umani fondamentali, di uguaglianza, di rifiuto delle discriminazioni e su questo voglio risposte» aggiunge.

Classe 1975, nata in una famiglia di profughi nella città di Tur’an – tra Haifa e Tiberiade – assistente sociale con una specializzazione in studi di genere conseguita all’Università ebraica di Gerusalemme, Samah Salaime è tra i dirigenti della comunità Neve Shalom Wahat al Salam dove vive con il marito e i tre figli maschi e ha fondato negli anni scorsi l’associazione Na’am – Donne arabe al centro, con sede a Lod e attiviste nella maggior parte delle città israeliane con popolazione arabo-ebraica come Ramle, Jaffa, Haifa. Insieme al collettivo ha svolto un’ampia campagna di sensibilizzazione nelle comunità arabe e attraverso azione di lobbying alla Knesset (il parlamento israeliano) contro la violenza domestica, la discriminazione delle donne sul lavoro, la cultura patriarcale e i matrimoni precoci.

Mai più l’espressione «delitti d’onore»

«Rifiutiamo in modo netto – rimarca Samah – l’orribile espressione “delitto d’onore”, che è il frutto di una visione patriarcale e che è stata adottata per decenni da polizia e assassini, quasi sempre padri o fratelli delle vittime. Potrà non piacere a certi circoli conservatori, ma è un motivo di vanto per me che stiano aumentando le denunce di donne vittime di violenze da parte dei mariti e le richieste di luoghi protetti in cui vivere: è un segno che la mentalità sta cambiando, che le donne arabe non accettano più di essere picchiate e violentate dal partner e che sono sempre più consapevoli dei loro diritti. Come assistenti sociali e attiviste abbiamo il dovere di offrire a queste donne un’alternativa».

Urge libertà di parola anche tra palestinesi

Dopo aver vinto nel 2015 il premio New Israel Fund Human Rights ed esser entrata nel 2020 nella lista delle donne più influenti in Israele redatta dalla rivista Forbes, Samah è tornata a far sentire la sua voce nelle ultime settimane dopo un altro tentato omicidio in Israele di una donna di 26 anni madre di tre bambini da parte dell’ex marito. «Dobbiamo reagire con forza contro questi crimini e soprattutto contro coloro che cercano di minimizzare – afferma l’attivista –, di metterci a tacere, di non affrontare un dibattito serio e profondo sulla violenza diffusa all’interno delle nostre comunità arabe. Come palestinesi non possiamo affermare che vogliamo libertà di parola e di movimento, che vogliamo uguaglianza in uno Stato democratico e poi non farci sentire all’interno delle nostre comunità, lottare per parlare apertamente e ad ampio spettro contro le violenze di genere».

Sedici femminicidi in Israele nel 2021, meno che nel 2020

L’attivista si dice particolarmente preoccupata dall’aumento dei delitti in generale e del crimine organizzato all’interno delle comunità arabe israeliane: nel solo 2021 sono state 126 le vittime di omicidi tra gli arabi israeliani (105 uomini, 16 donne e 5 minorenni). Secondo l’Osservatorio israeliano sui femminicidi sono invece diminuiti del 24 per cento rispetto al 2020 gli assassinii di donne da parte di partner o familiari: delle 16 vittime la metà erano arabe (druse incluse).

Disparità di trattamento nelle indagini e nei tribunali

«È angosciante – sottolinea Samah – pensare che gli arabi israeliani siano appena il 20 per cento della popolazione ma fra di loro si trovi la metà delle donne uccise dai partner o dai familiari. Non posso evitare di denunciare con forza anche una seconda forma di ingiustizia della quale siamo vittime come arabe: mentre noi sappiamo tutto di chi uccide una donna ebrea, l’80 per cento degli aggressori delle arabe non viene incriminato, spesso nemmeno perseguito. Ciò significa che la giustizia non funziona correttamente in Israele: il messaggio che lo Stato trasmette è che noi arabe non veniamo trattate come le ebree, la nostra vita non vale quanto quella di un’ebrea. Si tratta di una forma ancora più sottile e sofisticata di discriminazione contro noi donne palestinesi cittadine israeliane che non possiamo in alcun modo tacere. Non c’è altra strada che continuare a combattere e a reagire con forza: la giustizia e la democrazia si costruiscono con l’impegno di ciascuno».

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