Otto mesi: tanto è durata la speranza, per quanto piccola, per i cittadini palestinesi di Israele, cioè i discendenti dei palestinesi rimasti nella loro terra quando lo Stato di Israele fu creato nel 1948. Giovedì 10 marzo, infatti, è stata adottata una legge controversa, detta di «cittadinanza», e per capire il disappunto dei palestinesi bisogna risalire al 2003 e ripercorrere il corso dei successivi 20 anni.
Israele era solito prolungare regolarmente e quasi automaticamente, fino all’estate 2021, un’ordinanza sulla sicurezza – della durata di un anno – che era stata votata nel pieno della seconda Intifada (2000/2005). Obbedendo in origine a obiettivi di sicurezza, la legge sospendeva la naturalizzazione automatica per matrimonio o l’ottenimento dello status di residente per i coniugi di palestinesi con cittadinanza israeliana che provenissero da Cisgiordania e Gaza.
Gradualmente, il campo di applicazione della legge si è esteso a Paesi considerati nemici di Israele, come Libano, Siria, Iran e Iraq. Questo per evitare l’ingresso e la circolazione di potenziali terroristi palestinesi in Israele, che avessero usato il matrimonio come pretesto. Il servizio di sicurezza Shin Bet ha dichiarato che tra il 2001 e il 2021 circa 48 persone erano state coinvolte in attività terroristiche.
Oggi la legge è anche associata al desiderio di mantenere una maggioranza ebraica in Israele. Il provvedimento, infatti, colpisce migliaia di coppie palestinesi, in cui uno dei coniugi proviene dalla Cisgiordania, territorio occupato da Israele dal 1967, o dalla Striscia di Gaza, posta sotto blocco.
Secondo i palestinesi che sono cittadini di Israele e che rappresentano il 20 per cento della popolazione dello Stato ebraico, la legge è discriminatoria nei loro confronti perché pone condizioni rigorose al ricongiungimento familiare e ostacola il loro diritto di sposare chi desiderano. Da notare, poi, che non si applica ai circa 500mila ebrei che vivono nelle colonie.
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Un voto dopo otto mesi di incertezza
Il divieto del 2003 è temporaneamente caduto lo scorso luglio. Il testo, infatti, non era stato rinnovato quando la nuova e fragile coalizione che regge il governo israeliano di Naftali Bennett – che comprende anche partiti di sinistra e un partito arabo – non ha raccolto i voti per adottarlo. L’opposizione di destra ha poi votato contro il testo nel tentativo di destabilizzare il governo.
Il risultato ha lasciato credere i cittadini palestinesi di Israele che le autorità israeliane potessero cambiare linea politica. E molti dei loro coniugi, palestinesi di Gaza e della Cisgiordania, avevano avviato le pratiche, sperando di poter richiedere la residenza permanente in Israele o la cittadinanza israeliana.
Alla fine, il 10 marzo, dopo mesi di trattative sotto l’impulso della ministra dell’Interno, Ayelet Shaked, nazionalista convinta, la legge è stata adottata con 45 voti favorevoli e 15 contrari, grazie anche ai voti delle formazioni di opposizione di destra ed estrema destra. I partiti Meretz (sinistra) e Ra’am (islamico conservatore), membri della coalizione di governo, hanno invece votato contro il resto della coalizione.
Tra le due votazioni, di luglio 2021 e marzo 2022, il ministero dell’Interno, che gestisce l’immigrazione dei non ebrei, non ha comunque accolto alcuna richiesta di ricongiungimento familiare.
Il nuovo testo, votato per un periodo di un anno e rinnovabile, assomiglia molto ai testi precedenti, ma presenta una nuova versione secondo cui la legge, oltre all’aspetto della sicurezza, ha chiaramente l’obiettivo di garantire una maggioranza demografica ebraica in Israele.
Una legge denunciata come discriminatoria e razzista
La parlamentare di Meretz Gaby Lasky ha condannato fermamente il provvedimento: «La legge discriminatoria e razzista sulla cittadinanza è stata approvata dalla Knesset. (…) Sfortunatamente, la coalizione si è unita all’estrema destra per aggiungere un punto nero alle leggi dello Stato di Israele».
«Diversi gruppi per i diritti umani hanno annunciato che contesteranno la legge davanti alla Corte Suprema di Israele», ha riferito l’agenzia Afp. È il caso di Adalah, il Centro legale per i diritti delle minoranze arabe in Israele, che ha presentato un ricorso. Per la prima volta, la legge afferma esplicitamente che il divieto di ricongiungimento familiare palestinese è inteso a servire il carattere ebraico dello Stato. Gli stessi legislatori hanno affermato di aver ritenuto opportuno farlo, tenuto conto della legge del 2018 sullo Stato-nazione.
Circa 13.200 coniugi palestinesi vivono in Israele con permessi precari, ottenuti attraverso eccezioni al divieto del 2003. I palestinesi in Israele con permessi di soggiorno vivono generalmente in condizioni incerte perché devono rinnovare costantemente i loro documenti, che possono essere revocati in qualsiasi momento. Non possono beneficiare del sistema sanitario, né aprire un conto in banca, o guidare, e spesso hanno pochi documenti che li collegano ai figli.
The Times of Israel ricorda che, tra il 1993 e il 2003 – quando la legge fu approvata per la prima volta –, circa 130mila palestinesi avevano ottenuto la cittadinanza o la residenza israeliana attraverso il ricongiungimento familiare, compresi i bambini, secondo i documenti giudiziari.
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I dati riportati dal quotidiano Haaretz mostrano che dal 2015 alla metà del 2021, invece, solo un coniuge maschio di una residente permanente in Israele è stato coinvolto in un incidente di sicurezza e il numero di questi coniugi di cittadini israeliani è stato di poche unità all’anno.
«I numeri sono molto bassi e quindi non c’è giustificazione per un danno così grave a così tante persone», ha affermato sulle colonne del quotidiano Oded Feller, avvocato e membro dell’Associazione per i diritti civili in Israele. «Il collegamento con la sicurezza è molto debole. È una scusa, e lo diciamo dal primo momento. Chiaramente il timore principale è che i palestinesi ottengano uno status legale e dal nostro punto di vista si tratta di una questione razzista».
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