Da parte siriana, la necessità di ritornare nel consesso del mondo arabo e trovare partner commerciali ed economici; da parte emiratina, la volontà di staccare la Siria di Assad dall’influenza iraniana e di proporsi come primario attore regionale in Medio Oriente.
Potrebbero essere queste alcune delle letture per la visita che il presidente siriano Bashar al-Assad ha effettuato venerdì 18 marzo negli Emirati Arabi Uniti. Si tratta della prima visita ufficiale in un Paese arabo dallo scoppio della guerra civile nel 2011. Il viaggio ad Abu Dhabi, dove ha incontrato il principe ereditario, lo sceicco Mohammed bin Zayed Al Nahyan, segna un nuovo passo avanti nel ristabilimento delle relazioni diplomatiche tra Siria e Emirati, dopo un decennio di interruzione. Nei colloqui si è parlato di sicurezza, stabilità e pace, in Medio Oriente, ma non solo. Si è discusso (a quanto riportano i media emiratini) anche dei modi per «preservare l’integrità territoriale della Siria e il ritiro delle forze straniere dal Paese», nonché dei «mezzi per fornire sostegno politico e umanitario alla Siria». Oltre al principe ereditario, Assad ha incontrato anche l’emiro di Dubai Mohammed bin Rashid Al Maktoum che è il primo ministro degli Emirati.
La visita di Bashar al-Assad nel Paese ha suscitato le malcelate ire di Washington, che si è detta «profondamente delusa». Ned Price, portavoce del Dipartimento di Stato degli Usa, ha rimarcato come la Casa Bianca sia «turbata dall’apparente tentativo di legittimare Bashar al-Assad, che rimane responsabile della morte e delle sofferenze di innumerevoli siriani, dello sfollamento di oltre la metà della popolazione e della detenzione arbitraria e della sparizione di oltre 150 mila uomini, donne e bambini siriani».
Leggi anche >>> Il nunzio Zenari: Tre fragelli devastano la Siria
Il viaggio di Assad negli Emirati segue la richiesta, avanzata da Abu Dhabi nel marzo 2021, di riammettere la Siria nella Lega Araba. Già nel dicembre 2018 gli Emirati Arabi Uniti hanno riaperto la loro ambasciata a Damasco, promuovendo uno sforzo per riportare il governo siriano nel consesso delle nazioni arabe.
Nel novembre scorso il ministro degli Esteri degli Emirati ha incontrato per la prima volta dall’inizio del conflitto Assad nella capitale siriana. Già in quella occasione la denuncia degli Usa circa il tentativo di «normalizzare i legami con il dittatore» non si era fatta attendere.
All’inizio di marzo la commissione d’inchiesta delle Nazioni Unite sulla Siria ha chiesto «una revisione dell’attuazione e dell’impatto delle sanzioni attualmente imposte alla Siria», alla luce del deterioramento delle condizioni di vita, diventate insostenibili. Tuttavia, Gran Bretagna, Francia, Germania, Italia e Stati Uniti hanno dichiarato in un comunicato congiunto di «non sostenere gli sforzi per normalizzare le relazioni con il regime di Assad».
La visita del rais di Damasco cade in un momento reso ancora più delicato dalla guerra tra Russia e Ucraina. Non va dimenticato che diversi Stati del Golfo hanno sostenuto i ribelli che combattevano contro le forze di Assad, e solo l’intervento russo a partire dal 2015, ha consentito a Damasco di riconquistare la maggior parte del territorio perduto.
Leggi anche >>> Mercenari in campo nel conflitto russo-ucraino
Il viaggio di Assad è poi avvenuto all’indomani di un incontro a Mosca tra il ministro degli Esteri degli Emirati e il suo omologo Sergei Lavrov. Né gli Emirati Arabi Uniti né l’Arabia Saudita sono stati molto solleciti nel condannare l’invasione russa dell’Ucraina. Gli Emirati, anzi, membro non permanente del Consiglio di sicurezza dell’Onu, il 26 febbraio si sono astenuti nel voto di condanna. E solo il 20 marzo l’Arabia Saudita ha accettato di aumentare la produzione di greggio, richiesta avanzata dagli Usa, per calmierare il prezzo mondiale del petrolio schizzato alle stelle dopo l’inizio delle ostilità tra Mosca e Kiev.
Insomma, c’è chi vede l’accoglienza negli Emirati di Assad, fedele alleato di Mosca, come un poco velato riposizionamento del Paese sullo scacchiere del Medio Oriente. Un modo di tenersi le mani «più libere» dall’alleato americano e strizzare l’occhio a Putin in un momento in cui le sorti del conflitto scoppiato in Europa – e le sue implicazioni geopolitiche – sono ancora tutte da scrivere.