C’è soddisfazione in Giordania per alcuni recenti scavi archeologici effettuati sul suo territorio. Il 22 febbraio, insieme al ministro del Turismo, Nayef Hamidi Al-Fayez, il Dipartimento delle Antichità della Giordania ha presentato in una conferenza stampa la scoperta fatta lo scorso ottobre di una «installazione rituale unica» dedicata alla caccia e risalente a 9.000 anni fa.
Da dieci anni un’équipe archeologica franco-giordana dell’Istituto francese del Vicino Oriente (Ifpo) e dell’Università giordana Al-Hussein Bin Talal studia nell’ambito di un progetto archeologico il popolamento delle aree desertiche remote della Giordania sudorientale nella preistoria recente.
«Aquiloni del deserto»
Le ultime ricerche nell’ambito della campagna di scavi del 2021, condotta a est del bacino di al-Jafr, nelle montagne di Jibal al-Khashabiya, si sono aggiunte ai risultati di un decennio di scavi, durante i quali le squadre di ricercatori hanno messo le mani su un antico sistema di caccia alle gazzelle costituito da gigantesche trappole che sembrano corridoi di pietre a secco che possono essere percorsi per diversi chilometri. Sono conosciuti come «aquiloni del deserto» a causa della loro forma, avvistata per la prima volta da alcuni piloti aerei un secolo fa.
Tali trappole, sparse nei deserti del Medio Oriente, dall’Arabia Saudita centrale, passando per la Giordania, la Siria, l’Armenia, la Turchia, fino al Kazakistan, erano formate da due o più lunghe pareti convergenti a forma di imbuto. Lo scopo era quello di convogliare e circondare le gazzelle selvatiche in recinti semicircolari o di farle cadere in grandi buche, per essere poi uccise. Queste trappole erano talvolta organizzate in catene di strutture ininterrotte, massimizzando così il potenziale di cattura della selvaggina.
La squadra di archeologi ha affermato nella conferenza stampa che il sito includeva otto «aquiloni» e che si estendevano per 20 chilometri da nord a sud. E, diversamente dalla maggior parte delle ricerche recenti su tali strutture che tendono a farle risalire al quarto o terzo millennio a.C., i condirettori del progetto Sebap, Wael Abu Azizeh di Ifpo e Mohammad B. Tarawneh dell’Università Al-Hussein Bin Talal, hanno detto di essere in grado di datarli al periodo neolitico, vale a dire intorno al 7000 a.C.
Questo significa che già allora esisteva «un’organizzazione collaborativa di gruppi umani» e che anche questi «aquiloni del deserto» nelle montagne di Al-Khashabiya sarebbero «le strutture più antiche costruite su larga scala attualmente conosciute nel mondo». Per gli archeologi «questi risultati hanno notevoli implicazioni per la comprensione degli sviluppi umani in queste regioni, poiché attestano l’emergere di sofisticate strategie di caccia di massa, non immaginate in un contesto cronologico così precoce».
Un’organizzazione culturale «specifica»
In prossimità delle trappole, gli archeologi hanno rinvenuto negli ultimi anni anche accampamenti residenziali circolari, resti di capanne semisepolte con molte ossa di gazzella derivanti dalla lavorazione dei prodotti di queste battute di caccia. Gli scavi hanno mostrato «una cultura materiale estremamente ricca e diversificata, in particolare con una specifica industria litica».
I ricercatori perciò arrivano a definire questa forma di occupazione come una «specifica entità culturale» chiamata «ghassanide», in riferimento a un toponimo della zona. «Mentre nelle regioni limitrofe della Mezzaluna Fertile le comunità stanziali dei villaggi praticavano l’agricoltura e l’allevamento, risulta ora che i “ghassanidi” erano cacciatori specializzati». Le grandi quantità di ossa di gazzella mostrano che gli abitanti non solo cacciavano per i propri bisogni, ma praticavano anche scambi con i vicini.
Un complesso schema rituale
All’interno di uno dei campi, gli archeologi hanno scoperto una «complessa installazione rituale», cioè un santuario in eccezionale stato di conservazione. L’installazione consisteva in due stele, erette in posizione verticale, con una sagoma umana, denominate «Ghassan» e «Abu Ghassan». Non comuni nel contesto del Neolitico mediorientale, la più grande è alta 1,12 metri. Accanto al volto che vi è scolpito, è incisa la rappresentazione di un «aquilone del deserto». Il secondo menhir antropomorfo, alto circa 70 cm, ha solo un volto umano.
Dietro queste due pietre è stato anche portato alla luce un deposito di quasi 150 fossili marini, molti dei quali sono stati accuratamente posizionati in verticale. Sono state trovate anche una varietà di pietre di forma naturale insolita, oltre a manufatti lavorati poco comuni, tra cui figurine di animali e oggetti di selce, forse utensili. Tutti questi diversi reperti, insieme a una pietra rituale associata a un focolare, erano disposti all’interno di una specie di modellino in miniatura di un «aquilone del deserto» costruito con le pietre.
La Giordania «culla di civiltà»
«È evidente la natura rituale del deposito – hanno riferito gli archeologi –, che integra un uso inaspettato di fossili marini nella sfera simbolica e spirituale del Neolitico. L’altare e il focolare ad esso associato suggeriscono che nelle pratiche rituali ci può essere stata qualche offerta sacrificale».
Il simbolismo riferito agli «aquiloni del deserto» (cioè la raffigurazione su una delle due stele) indica che la caccia di massa era radicata nelle pratiche rituali. Il tutto aveva forse lo scopo di sollecitare forze soprannaturali per una caccia di successo, spiegano i ricercatori. Per questo potevano essere utilizzate anche statuette di animali.
La vicinanza del santuario alle trappole suggerisce chiaramente che gli abitanti di questa isolata area desertica erano cacciatori specializzati le cui trappole installate erano al centro della vita culturale, economica e simbolica, per non dire spirituale. Fino a oggi questo non era noto e ha portato il ministero del Turismo e delle Antichità ad affermare che la scoperta fa emergere la Giordania come una «culla di civiltà».