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Scivolati nella morte in Qatar

Elisa Pinna
18 febbraio 2022
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A fine anno il Qatar sarà al centro del mondo per la World Cup 2022 di calcio. Tutto luccicherà: nuovi stadi, alberghi e centri urbani. Ma quante vite di lavoratori sono state sacrificate per realizzare quel grande show?


Tra pochi mesi si accenderanno i riflettori sui prossimi mondiali di calcio che si giocheranno in Qatar dal 21 novembre al 18 dicembre 2022. L’emirato, il primo Paese arabo ad ospitare la Coppa del mondo, ha investito decine di miliardi di dollari per le infrastrutture e l’accoglienza. Tanto che l’ultimo rapporto del dicembre 2021 della Fifa, la Federazione internazionale calcio, trabocca di complimenti ed elogi per il Paese ospite prescelto nel 2010, e non senza qualche polemica, dai padroni del business del pallone.

Dietro il luccichio e le mirabilia attese per la prossima World Cup, esiste però una zona grigia in cui pochi si avventurano. Negli ultimi 11 anni almeno 6.500 lavoratori stranieri, in un modo che molti pensano non chiaro, hanno perso la vita in Qatar, dove erano andati a costruire strade, nuove cittadine nel deserto, hotel lussuosi, stadi avveniristici.

Per l’emirato si tratta di persone decedute per cause naturali, che non hanno nulla a che vedere con l’evento calcistico internazionale. I certificati di morte parlano di crisi cardiache e respiratorie. Tuttavia, i loro compagni di cantiere, le organizzazioni umanitarie, giornali e avvocati dei Paesi di origine – Nepal, India, Bangladesh, Filippine, Sri Lanka, Pakistan – raccontano un’altra storia, fatta di turni massacranti, con temperature attorno ai 40 gradi, senza ombra, senz’acqua e con pochi momenti di riposo.

Le condizioni estreme e lo sfruttamento brutale avrebbero causato la morte di persone giovani e robuste, accusa nei suoi rapporti Amnesty International. Simile, seppur con toni più diplomatici, è l’allarme dell’Organizzazione mondiale del Lavoro. Il tutto però è avvolto in una nebbia che nasconde responsabilità e numeri reali. La stessa cifra di oltre 6.500 lavoratori morti negli ultimi 11 anni è difficilmente accertabile, data la reticenza di più fonti. L’ha ricostruita nei mesi scorsi il giornale britannico The Guardian, sulla base dei dati forniti da alcuni Paesi d’origine dei lavoratori emigrati in Qatar dopo il 2010 e morti nell’Emirato. Questa valutazione nasce dalle stime arrivate dal Nepal, e in parte dall’India e dal Bangladesh; in altri Paesi non sono state raccolte notizie esaurienti e mancano del tutto informazioni dalle Filippine, una nazione che popola di manodopera la parte arabica del Golfo Persico.

Quindi i 6.500 morti citati sarebbero in realtà molti di più. Una conoscenza più completa dei dati potrebbe far salire anche di molto quel numero. Per le autorità di Doha, le vittime di incidenti sul lavoro dall’inizio della preparazione del Mondiali sono state appena 37. Gli altri non esistono e le loro famiglie non hanno diritto ad alcun indennizzo. «Sono scivolati nella morte» come dicono in Nepal, con un’espressione – ciplò mrtyu – ormai diventata tristemente popolare tra gli immigrati di tutte le nazionalità in Qatar, abituati a vedere accasciarsi all’improvviso i loro colleghi di lavoro o a ritrovarli morti nei loro giacigli in baracche surriscaldate.

«È proprio questo il punto – dice Barin Ghamir un avvocato nepalese che difende i diritti degli emigrati –. Ci si può aspettare che in una impresa faraonica, come quella di costruire dal niente le infrastrutture per i Mondiali di calcio, ci siano incidenti sul lavoro. Quello che non torna è il numero spropositato di migranti morti nell’ultimo decennio e il silenzio, l’indifferenza del Qatar, della stessa Fifa, e purtroppo anche di alcuni Paesi d’origine». «Vogliamo sapere quello che è successo, quale è il vero numero dei lavoratori morti nell’ultimo decennio nell’Emirato. Le nostre richieste di verità, di trasparenza, di giustizia si scontrano contro un muro di omertà», afferma il legale sul suo blog: secondo le sue valutazioni, sarebbero oltre 1.600 gli emigrati nepalesi che hanno perso la vita in Qatar.

Dal canto suo la Fifa, guidata dallo svizzero Gianni Infantino, preferisce esaltare le importanti riforme sul lavoro introdotte dall’Emirato negli ultimi anni, a partire dal 2017 e grazie alla World Cup. Lo stipendio minimo per i lavoratori stranieri è stato aumentato fino alla cifra di 279 dollari al mese, considerata un successo, e, sulla carta, è stato abolito il sistema feudale della kafala, che obbligava i migranti a lavorare per lo stesso padrone, senza poterlo cambiare, a prescindere dalle condizioni e dalle retribuzioni.

Detto questo, secondo calcoli di giornali specializzati, la Fifa guadagnerà dalla Coppa del mondo 2022 circa 9 miliardi di dollari. Un immigrato, grazie alle riforme introdotte con la paga mensile di 279 dollari, intascherà ora quasi 10 dollari al giorno e, in media, i suoi primi sette mesi di stipendio andranno a coprire i costi delle agenzie di intermediazione che ha dovuto pagare per ottenere un lavoro. Forse, guardando questi dati, ci si può spiegare meglio perché le condizioni e i decessi di coloro che hanno costruito con le loro mani e con il loro sudore le strutture e le infrastrutture della World Cup rappresentino un argomento da dimenticare al più presto. In fondo sono persone «scivolate nella morte», fantasmi che agiteranno alla fine ben poche coscienze.

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