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Labirinto iracheno

Fulvio Scaglione
10 febbraio 2022
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Alle elezioni dello scorso ottobre i giovani hanno disertato le urne e l'affluenza è stata bassa: 44 per cento. Ora vincenti e sconfitti tengono in scacco le istituzioni dello Stato e rinviano le nomine ai vertici. È stallo.


Per l’Iraq è di nuovo stallo totale. Già le elezioni dell’ottobre scorso avevano mandato pessimi segnali. Per confermare l’esito del voto c’erano voluti mesi e la conta finale aveva dimostrato che i giovani hanno disertato le urne (affluenza totale al voto: 44 per cento). Ora, passato altro tempo, la macchina istituzionale è completamente inceppata. Dopo il 2003 e la caduta di Saddam Hussein, l’Iraq si è dato un principio di spartizione delle cariche di tipo libanese: presidenza della repubblica a un curdo, presidenza del parlamento a un musulmano sunnita e guida del governo a un musulmano sciita.

In gennaio il sunnita Mohammed Halbusi è stato eletto presidente del parlamento. Il passo successivo sarebbe stato quello di convocare il parlamento e scegliere il presidente della repubblica, che entro 15 giorni (come impone la Costituzione) avrebbe a sua volta scelto il premier incaricato. Ma il 7 febbraio, giorno indicato per l’elezione presidenziale, si sono presentati solo 58 deputati su 329, dopo che tra l’altro la Corte costituzionale aveva deciso di sospendere la candidatura di Hoshyar Zebari, ex primo ministro ed esponente del Partito democratico del Kurdistan. Quindi tutto rinviato sine die, con il Paese più che mai diviso e la gestione più che mai provvisoria. L’esatto opposto di ciò di cui gli iracheni avrebbero bisogno.

Come al solito, però, è il quadro internazionale a influenzare la situazione interna dell’Iraq. Il voto dell’ottobre scorso ha pesantemente punito i partiti filo-iraniani della coalizione Fatah e ha premiato invece Sairun, la coalizione guidata dal chierico sciita Moqtada al-Sadr, ostile a tutte le presenze straniere nel Paese. Al terzo posto Taqaddum, la coalizione che ha come leader il già citato Al-Halbusi. I primi a scegliere di boicottare l’elezione del presidente della repubblica sono stati gli sciiti filo-iraniani: sconfitti alle elezioni, prendono tempo sperando che succeda qualcosa. Anche i deputati fedeli ad Al-Sadr hanno seguito la stessa strada, ma per ragioni affatto diverse.

Al-Sadr, infatti, vuole il governo. E permetterà che un presidente (curdo) sia eletto solo quando sarà ragionevolmente certo di ottenerlo. Ad appoggiarlo, curiosamente, sono proprio i Paesi che lui vorrebbe allontanare dall’Iraq ma che in questo momento hanno la sua stessa priorità: limitare l’influenza dell’Iran. Lui in Iraq – dove per anni Teheran, grazie anche alle milizie chiamate Forze di mobilitazione popolare e all’ex premier Nur al-Maliki, ha funzionato come una seconda capitale –, gli altri nel resto del Medio Oriente.

Così il partito di Moqtada al-Sadr, che negli anni scorsi era in prima linea nelle manifestazioni di protesta contro la base turca in Iraq di Bashiqa, è oggi il favorito della Turchia, così come delle monarchie del Golfo Persico, che vedono l’Iran come il primo pericolo per la sicurezza della regione. La cosa va ancora più lontano e interessa anche Israele, in pieno disgelo con le monarchie arabe. Il 31 gennaio scorso la visita del presidente israeliano Isaac Herzog negli Emirati Arabi Uniti è stata disturbata da un attacco di droni degli Houthi dello Yemen appoggiati dall’Iran. Subito dopo gli specialisti dello Stato ebraico hanno offerto ai colleghi emiratini assistenza e collaborazione nel campo della sicurezza. E la visita ad Abu Dhabi del presidente iraniano Raisi, in ogni caso, è stata rinviata a data da destinarsi. Anche gli Usa, che hanno sempre visto Moqtada al-Sadr come il fumo negli occhi, si sono riposizionati. Sono nel pieno della trattativa con l’Iran sul nucleare e che dall’Iraq arrivi altra pressione sugli ayatollah non può certo dispiacergli.

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