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L’Arabia Saudita nuova mecca del cinema

Elisa Pinna
20 gennaio 2022
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Dopo 35 anni di chiusura i cinema sauditi hanno riaperto i battenti nel 2018 e, nel giro di poco tempo, l'Arabia è diventato un mercato prospero e ambito. E forse può anche giocare un ruolo per la pace nella regione.


Nel 2021, mentre nel mondo occidentale le sale erano chiuse o semideserte per la pandemia di Covid-19, i botteghini del Regno saudita hanno incassato 238 milioni di dollari, una cifra enorme se paragonata a quella dei vicini della penisola arabica ed anche di molti Paesi europei. Una volta superata la censura politico-religiosa sui temi sensibili per la moralità islamica, 349 nuovi titoli hanno debuttato sui grandi schermi sauditi.

In soli quattro anni, l’Arabia Saudita si è affermata – si legge sulla rivista statunitense Variety – come il più importante mercato cinematografico dell’Asia Occidentale, per quanto riguarda gli introiti alle casse, partendo praticamente da zero. Per 35 anni infatti, dal 1983 al 2018, i cinema sauditi sono rimasti chiusi su pressione del clero wahabita e degli integralisti islamici.

Poi, il principe ereditario Mohammed Bin Salman ha deciso, il primo gennaio 2018, che era giunta l’ora di riaprire le sale, con l’obbiettivo, tutto politico, di costruire una supremazia saudita in un settore fino ad allora trascurato e allargare l’influenza culturale e religiosa nella regione. Da allora, il ministero per gli Investimenti sauditi, il dicastero che si occupa dei media, non ha badato a spese per incoraggiare produzioni locali, attirarne di internazionali, educare una nuova generazione di cineasti locali e, naturalmente costruire un circuito di sale da far impallidire rivali agguerriti come gli Emirati Arabi Uniti e il Qatar. I cinema sono spuntati come funghi, ora se ne contano 430 e l’obiettivo – promette il responsabile per il cinema del ministero degli Investimenti sauditi, Bahaa Abdulmajeed – è di averne 2.600 nel 2030. Gli analisti internazionali, come ad esempio PwC (la PricewaterhouseCoopers) prevedono che il Regno superi presto il miliardo di incassi annui, sorpassando ampiamente anche mercati importanti come quello italiano della fase pre-pandemia.

In questo tripudio di sale, progetti grandiosi di produzioni nazionali, straniere e miste, non poteva mancare anche un festival cinematografico internazionale, il primo nella storia del Paese. Ed è arrivato a Gedda il mese scorso il Red Sea International Film Fetival. Il lungomare della città portuale saudita non si presenta certo con lo stesso glamour di quello di Cannes, ma la giuria internazionale, presieduta dal regista italiano Giuseppe Tornatore, era di tutto rispetto, i tappeti rossi e le star regionali abbondavano e tra loro, con eleganza e disinvoltura, si muoveva una «madrina» del calibro dell’attrice Nicole Kidman.

Tra gli oltre cento film in competizione in questa prima edizione, a vincere il premio come miglior film è stato Brighton 4th, del regista georgiano Levan Koguashvili. L’opera narra la storia di un ex campione olimpico di wrestling, che si precipita da Tbilisi a New York per aiutare un figlio sbandato, travolto dai debiti e dal gioco d’azzardo.

Miglior regia è stata riconosciuta quella dell’italo-iracheno Haider Rashid per il film Europa, che narra il viaggio per la vita di un profugo iracheno sulla rotta balcanica. La decisione più inattesa, tuttavia, è stata quella di consegnare il premio speciale della Giuria, nei fatti il riconoscimento più importante subito dopo la coppa per il «miglior film», al lungometraggio iraniano Hit the Road (in italiano suona più o meno come «Mettersi in strada» o «in cammino») del regista Panah Panahi. Si tratta di un’opera realizzata negli sconfinati deserti persiani, che parla di una bizzarra e stravagante famiglia iraniana in viaggio in auto verso una misteriosa destinazione. Impossibile pensare che le autorità iraniane non avessero autorizzato la partecipazione dell’opera di Panahi al festival di Gedda e che le autorità saudite fossero all’oscuro della premiazione di un film girato e prodotto dal loro peggior nemico…

Chissà se nel tentativo di riavvicinamento avviato sottotraccia ormai da più di un anno tra la monarchia saudita e la Repubblica degli ayatollah, non possa ritagliarsi un suo ruolo la “diplomazia del cinema”, così come fu quella “del ping-pong” tra Stati Uniti e Cina, negli anni Settanta del secolo scorso.

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