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La battaglia di Hasaka riporta l’Isis alla ribalta

Fulvio Scaglione
26 gennaio 2022
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Continua da giorni, violenta e senza esclusione di colpi, nel nord-est della Siria la battaglia di Al-Hasaka, per stoppare un tentativo di evasione di detenuti dell'Isis. Molte le forze in campo, alto il numero delle vittime. Le responsabilità internazionali


Al-Hasaka, nel nord-est della Siria. Dovremmo segnarci nome e posizione di questa città dove, ormai da una settimana, infuria una battaglia. Riepilogo: il 20 gennaio due auto-bomba vengono lanciate contro i portoni dell’ex scuola che, ad Hasaka appunto, è stata trasformata in una prigione fetida dove sono ammassate circa 4 mila persone. È un colpo ben organizzato, che mira a far fuggire centinaia di detenuti che appartengono (o sono sospettati di appartenere) all’Isis e che dopo le esplosioni vengono forniti di armi. Inizia così la battaglia che dura ancora adesso e che ha visto l’intervento a terra delle Forze democratiche siriane (milizie formate da curdi e da elementi delle tribù arabe ribelli al presidente Bashar al-Assad), i bombardamenti degli elicotteri statunitensi e le incursioni dei commando inglesi e americani.

Con tutto questo spiegamento di forze, gli aspiranti evasi, pur decimati (si parla di 200 morti), ancora resistono in un’ala del carcere. E i loro complici scatenano scontri improvvisi per le strade della città. È un combattimento brutale. Il carcere è stato bombardato senza alcuna remora e i militanti dell’Isis hanno usato come scudi umani decine di ragazzi delle loro famiglie, in cella con loro, mentre i bambini e le donne sono in altri campi di detenzione. Almeno un civile è stato decapitato e molti altri sono stati uccisi. Migliaia di famiglie hanno lasciato Hasaka per non essere coinvolte.

Vedremo quando e come finirà. Ma due considerazioni s’impongono in ogni caso. La prima è che, con ogni evidenza, i resti del sedicente Stato islamico si stanno in qualche modo riorganizzando. Le notizie che arrivano dalla Siria dicono che la base dei revanscisti sia nella zona di Deir ez-Zor, dove i nuovi adepti dell’Isis si finanziano con estorsioni ai danni degli allevatori e di coloro che estraggono petrolio illegalmente con macchinari improvvisati. In quell’area, il Centro informazioni del Rojava (l’entità autonoma creata dai curdi nel nord-est della Siria – ndr) ha documentato 19 attacchi armati nel solo mese di novembre 2021. E 11 soldati iracheni sono stati uccisi in una recente incursione oltre frontiera.

Aggiungendo lo sfacelo dell’economia siriana, piagata dalle sanzioni internazionali, e la peggiore siccità degli ultimi settant’anni, si ottiene la miscela perfetta per promuovere la vecchia ricetta jihadista. Bisognerebbe fare qualcosa ma la cosiddetta “comunità internazionale”, tra i Paesi che ancora sognano di veder tracollare Assad e quelli che lo appoggiano ma non hanno la forza necessaria, si è abbandonata a un’inerzia che si scarica sul popolo siriano.

L’altra considerazione è che, in mancanza di una decente soluzione politica per la Siria, dovrebbe almeno prodursi un minimo di sensibilità umanitaria. Ma i Paesi europei rifiutano di accogliere i “loro” jihadisti, ovvero quegli europei che ora sono prigionieri ma che partirono da Francia, Germania e Regno Unito per andare a distruggere la Siria. Quel che è peggio, però, è che rifiutano anche i figli incolpevoli di quegli stessi jihadisti, lasciandoli a soffrire nei campi di prigionia e nelle carceri, abbandonati alla custodia dei curdi che, a loro volta, dopo un decennio di guerra, non ne possono più di fare i carcerieri.

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