(c.l./g.s.) – Hanno dovuto assegnargli una scorta dopo le minacce di qualche esagitato che non apprezza la sua spinta riformatrice. Nelle ultime settimane Matan Kahana, il ministro israeliano per gli Affari religiosi ha messo mano a due questioni spinose: la kasherut e il riconoscimento delle conversioni all’ebraismo. In entrambi i casi, il suo intervento va a minare l’influenza monopolistica che il Gran Rabbinato di Israele esercita sulla vita quotidiana dei connazionali ebrei.
Matan Kahana (49 anni) è un politico vicino al movimento dei coloni; ex ufficiale pilota di caccia (si è congedato nel 2018), milita in Yamina, l’alleanza di destra che fa capo al premier in carica, Naftali Bennett.
>>> Leggi anche: Israele, i numeri di un Paese multietnico
Tra i suoi obbiettivi come ministro c’è quello di facilitare il percorso di conversione all’ebraismo, considerato troppo duro e scoraggiante. In Israele le richieste di conversione provengono principalmente da persone nate da padri ebrei e madri non ebree: secondo il criterio classico l’ebraicità si tramanda attraverso la madre. In uno studio dell’anno scorso, il Jerusalem Institute for Policy Research ha rilevato che circa il 45 per cento degli intervistati non considerati ebrei dalla legge ebraica sarebbe disposto a convertirsi, o a prendere in considerazione la possibilità di convertirsi, se venissero apportate modifiche alle procedure e normative vigenti.
Agevolare le conversioni
Nello Stato ebraico oggi vivono 450mila persone provenienti dai Paesi dell’ex Unione Sovietica che hanno origini giudaiche, ma non sono considerate ebree in base all’Halakah, la legge ebraica ortodossa tradizionale. Negli ultimi decenni solo circa 35mila immigrati provenienti da quei Paesi hanno intrapreso un processo di conversione.
C’è anche un’altra componente della popolazione israeliana che vorrebbe essere riconosciuta come ebrea: parliamo degli immigrati dall’Etiopia appartenenti alla comunità dei Falasha Mura, cioè i discendenti degli ebrei Falasha che si convertirono al cristianesimo, spesso sotto costrizione, diverse generazioni fa. Circa 30mila di loro sono immigrati in Israele dal 1997. Non vanno confusi con gli immigrati ebrei etiopi della comunità Beta Israel, i Falasha, che sono già riconosciuti come ebrei a tutti gli effetti.
>>> Leggi anche: Israele apre le porte a mille falasha mura etiopi
Matan Kahana ritiene «inaccettabile», dice la stampa israeliana, escludere dall’ovile dell’ebraismo coloro che hanno radici ebraiche, ma che non sono considerati ebrei secondo la legge halakica. Per illustrare la sua posizione, alcune settimane fa sul quotidiano The Times of Israel, l’ex pilota dell’aeronautica ha dato una testimonianza personale: «La migliore donna attualmente nel mio squadrone non è halakhicamente considerata ebrea poiché sua madre non è ebrea e nemmeno sua nonna, mentre il nonno lo è. Presto si sposerà; ha terminato il servizio militare e farà il medico. Sta per sposare un ebreo israeliano e i suoi figli non saranno ebrei agli occhi della legge ebraica». Il ministro ha chiosato che «oggi ci sono autorità che scoraggiano attivamente il riconoscimento di potenziali e sinceri convertiti».
Un processo uniforme in tutto il Paese
Così, il 12 gennaio scorso, il ministro Kahana ha reso nota la sua proposta, con il sostegno del governo. Se approvata così com’è dalla Knesset – il parlamento monocamerale israeliano – la nuova legge consentirebbe conversioni ben oltre gli auspici del Gran Rabbinato, mediante procedure meno complesse e più agevoli ed efficienti. La riforma immaginata da Kahana mira a consentire ai rabbini capo municipali di sancire le conversioni istituendo appositi tribunali, sottoposti alle linee guida di un’Autorità per le conversioni e di un consiglio direttivo incaricati di definire le regole di conversione e vigilare sulla loro uniforme applicazione in tutto il territorio nazionale. Il piano – segnala The Times of Israel – consente comunque al Gran Rabbinato di rimuovere un rabbino da un consiglio di conversione locale in determinate circostanze, qualora non rispetti le regole fissate.
Al momento attuale le conversioni sono controllate e riconosciute solo dal Gran Rabbinato, dominato dagli ultraortodossi. In tutto il territorio di Israele sono poche dozzine i rabbini che se ne occupano; i tribunali di conversione sono quattro.
Va ricordato che meno di un anno fa, nel marzo 2021, la Corte Suprema israeliana ha riconosciuto per la prima volta l’ebraicità di alcune persone convertitesi al giudaismo in Israele attraverso i movimenti riformatori e conservatori (Masorti), stabilendo così che sono ebree agli occhi dello Stato. Quelle conversioni non sono però riconosciute dal Gran Rabbinato. Considerando il fatto che in Israele non esiste il matrimonio civile, ma soltanto quello celebrato davanti alle competenti autorità religiose (ebraiche, cristiane, musulmane ecc.), secondo le norme proprie, questi ebrei non potranno sposarsi davanti a un rabbino sul suolo israeliano.
Un’occasione storica?
Matan Kahana ha definito la sua proposta un’«opportunità storica», ma il Rabbino capo ashkenazita, David Lau, che è a capo della Grande Corte rabbinica, ha minacciato di non approvare più alcuna conversione al giudaismo se il governo non rinuncerà al suo progetto di riforma.
Come se non bastasse, con grande dispiacere degli ultra-ortodossi, il disegno di legge del ministro Kahana è stato redatto con il consiglio di diversi rabbini del movimento «ortodosso moderno». Ciliegina sulla torta, la settimana prima di rendere nota la riforma il ministro ha affidato il sistema che supervisiona le conversioni al giudaismo alla guida dal rabbino Benayahu Brunner, che è affiliato a Tzohar, un gruppo di rabbini ortodossi relativamente liberali. Il ministro aveva sollevato dalle sue funzioni il capo ad interim dell’Autorità per le conversioni, Moshe Veller, uno stretto collaboratore del rabbino capo David Lau… Più che sufficiente per scaldare gli animi.
Certificati sugli alimenti kosher, spazio alla concorrenza
Il piglio innovatore del ministro Kahana s’era d’altronde manifestato già a inizio 2022, con l’avvio, il 2 gennaio, della prima fase di riforma della kasherut (che garantisce il rispetto delle norme alimentari giudaiche che si rifanno alla Bibbia).
La riforma voluta dal dicastero per gli Affari religiosi si ispira all’intento di porre fine al monopolio dei rabbinati locali – sottoposti all’autorità del Gran Rabbinato –, fin qui gli unici organi autorizzati a rilasciare agli esercizi commerciali i certificati che attestano la conformità degli alimenti e delle preparazioni di bar e ristoranti alle norme della kasherut. Creare maggiore concorrenza per quanto riguarda il rilascio delle certificazioni dovrebbe portare a una riduzione dei prezzi al consumo.
Secondo uno studio pubblicato lo scorso ottobre dall’Israel Democracy Institute, «il sistema di certificazione di kasherut israeliano è decisamente inefficiente e drasticamente privo di trasparenza. Costa ai contribuenti circa 13,1 milioni di shekel (3,7 milioni di euro) in più ogni anno e si traduce in una doppia o addirittura tripla certificazione di alcuni esercizi», leggiamo su The Times of Israel.
>>> Leggi anche: Il Gran Rabbinato e le frodi sui cibi kosher
Con la riforma avviata da Matan Kahana, ristoranti, negozi di alimentari e aziende di produzione alimentare possono rivolgersi a qualsiasi rabbino capo municipale su tutto il territorio nazionale per ottenere la certificazione di kasherut, il che – auspica il ministro – aprirà il mercato alla concorrenza e consentirà ai migliori e più seri di offrire agli imprenditori servizi più convenienti.
La seconda fase della riforma dovrebbe andare in vigore il primo gennaio 2023. Da quel momento anche agenzie private, sotto la supervisione del governo, potranno rilasciare i certificati di conformità. È prevista la creazione di un organo di controllo del Gran Rabbinato che vigili sulla correttezza delle agenzie nell’aderire agli standard religiosi che si impegnano a rispettare.
Anche in questo caso la riforma è duramente contrastata dagli ultraortodossi che la leggono come un attacco Gran Rabbinato. I loro parlamentari hanno presentato un migliaio di emendamenti alla Knesset, la maggior parte dei quali sono stati respinti.
Abbonati anche tu alla rivista Terrasanta
il bimestrale fondato dalla Custodia di Terra Santa, a Gerusalemme, nel 1921
68 pagine a colori dense di servizi e approfondimenti su culture, religioni, attualità, archeologia del Medio Oriente e delle terre bibliche.
Da più di 100 anni un punto di riferimento. Ogni due mesi nelle case dei lettori.
Le modalità di abbonamento