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Gli iraniani insofferenti con i chierici intolleranti

Elisa Pinna
10 gennaio 2022
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Il popolo iraniano non è poi così allineato con gli ayatollah che controllano le istituzioni della Repubblica islamica. Persino a Qom le donne si ribellano alle restrizioni sull'abbigliamento e per le strade i religiosi vengono contestati.


Da molto tempo in Iran sono all’ordine del giorno vivaci alterchi di strada tra zelanti ayatollah e donne che indossano il «cattivo» hijab, ovvero un semplice foulard appoggiato sulla nuca, senza una copertura totale della capigliatura. Qom, con le sue università islamiche e gli oltre 100mila studenti religiosi e chierici impegnati nei seminari teologici, non fa eccezione, a dispetto della sua fama di città austera e sacra. Anzi, le cose stanno cambiando con rapidità.

Lo scorso ottobre è avvenuta una litigata particolarmente spettacolare: una giovane, redarguita da un religioso per il suo hijab «cattivo» (la definizione è dei moralizzatori iraniani), ha reagito strappando dalla testa del chierico il turbante e calpestandolo. Poi, mentre il mullah la inseguiva tentando di colpirla con il suo bastone da passeggio, la ragazza ha attraversato la strada, ha dato l’assalto ad un altro chierico, buttando per terra un secondo turbante e camminandoci sopra. La scena, avvenuta non lontano dalla moschea di Fatimeh Masoumeh, il santuario più importante della città, ha richiamato l’attenzione di numerose persone, incuriosite e forse divertite da quell’insolito combattimento. Nessuno è però intervenuto. Qualcuno ha tirato fuori il telefonino per riprendere quanto stava accadendo. Lo scontro sembrava essere finito lì, perché dopo un ulteriore scambio di insulti, ciascuno se ne era andato per la propria strada.

L’episodio, nella sua essenzialità quasi plastica, fa riflettere sulle diverse pulsioni presenti nella città roccaforte dell’ortodossia sciita: la prima è l’avversione che dilaga ormai tra le giovani generazioni di Qom per l’hijab «buono» (il velo che lascia scoperto solo l’ovale del volto) e , ancora di più, per lo chador, la veste nera che copre tutto il corpo e la testa delle donne. Ne è conferma un recente reportage fatto dall’agenzia di notizie radiofoniche e televisive del Qom Center. La giornalista, Somayeh Haja Amadi, descrive la sua città come «coperta dalla polvere dall’immoralità». Il suo giro nei negozi è sconsolante: i commercianti non si fanno alcun problema a vendere non solo foulard sgargianti, ma anche soprabiti senza bottoni, («nessuna ragazza comprerebbe un manteau con i bottoni o chiuso davanti», dice un negoziante). Tra gli articoli più richiesti, scopre la reporter, sono i jeans sdruciti e persino i pantaloni corti per gli uomini, altri generi ugualmente proibiti dal codice di abbigliamento della Rivoluzione khomeinista. «Qui sembrano tutti dormire, nessuno interviene, né il sindacato dei commercianti né le autorità preposte alla tutela della moralità», commenta la giornalista.

Un secondo problema che affligge Qom, simboleggiato nella rissa dei turbanti, è lo scarso rispetto verso i chierici, nonostante il loro numero imponente in città. Mohamed Taghi Fazi Meyhodi, membro dell’assemblea degli studiosi e dei ricercatori dei seminari di Qom, in un’intervista ad un giornale locale, riferisce che effettivamente molti religiosi preferiscono non utilizzare l’abito d’ordinanza e il turbante quando sono in giro per acquisti o motivi privati, per evitare di essere insultati. «La gente comune – osserva – non si fida più dei chierici. Siamo visti come collaboratori del governo o di apparati militari, e non come guide spirituali». Anche qui le autorità non hanno ancora in apparenza costruito una linea di comportamento, forse affidandosi a un pragmatismo quotidiano per non fare salire ulteriormente le tensioni. Nel caso della ragazza che strappava e calpestava i turbanti, per quasi tre mesi non è successo niente. Tutto sembrava essere finito nel dimenticatoio finché un’attivista per i diritti delle donne iraniane, Masih Alinejad, residente a New York e molto seguita tanto in Occidente quanto in Iran, non ha avuto l’idea, decisamente discutibile, di pubblicare su Twitter il video dell’accaduto, che le era giunto per vie traverse. Due giorni dopo, il 3 gennaio scorso, Awza News, l’agenzia dei seminari di Qom, ha annunciato che la ragazza – vittima del fuoco amico – è stata arrestata per l’aggressione ai due religiosi.

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