Cosa anima i palestinesi che continuano a difendere i propri diritti nella terra in cui sono nati? Il concetto di sumud che in arabo sta per "risolutezza", "fermezza", come ci spiega una delle attiviste, Manal Shqair.
Il suo nome, Manal, in arabo significa sia «successo» sia «desiderio». «Per anni ho odiato il nome che aveva scelto di darmi mio padre perché non aveva consultato mia madre – racconta – ma oggi, dopo tante battaglie contro l’occupazione israeliana e contro le discriminazioni che viviamo come donne all’interno della società patriarcale palestinese, lo amo perché evoca le aspirazioni che abbiamo portato a compimento: in arabo vuol dire infatti sogni realizzati, rimanda sia a ciò che abbiamo costruito sia ai desideri che ci hanno messo in movimento». Manal Shqair, 28 anni, palestinese, è la coordinatrice dell’organizzazione Stop the Wall, nata negli anni Duemila per contrastare la costruzione del Muro di separazione israeliano oggi lungo 700 chilometri.
Dalla sede di Ramallah, in Cisgiordania, gli attivisti cercano di documentare e di contrastare le annessioni illegali di terre, l’espansione degli insediamenti israeliani, le violazioni dei diritti umani nei 593 posti di blocco militari nei Territori occupati e sulle comunità beduine residenti nella valle del Giordano. Gran parte del suo lavoro, ha spiegato in una puntata di When feminists rule the world, un podcast condotto dal Canada dall’attrice Martha Chaves sulle donne che stanno cambiando il mondo, consiste nel tenere alto il morale dei palestinesi con cui gli attivisti entrano in contatto e rafforzare le motivazione alla resistenza, un’attitudine che fin dalla prima Intifada del 1987 i palestinesi chiamano sumud.
Il pilastro della resistenza palestinese
«Sumud in arabo vuol dire “risolutezza”, “fermezza nel resistere” all’occupante israeliano – spiega l’attivista – ed è un concetto centrale nel nazionalismo palestinese. È uno stile di vita, è una cultura, è una forma di onore che negli ultimi anni ha profondamente innervato la vita dei palestinesi che vivono nei Territori occupati: significa non permettere che l’occupazione distrugga le nostre esistenze; significa continuare ad andare all’università e laurearsi malgrado i posti di blocco, perché l’istruzione è l’arma più potente che abbiamo per realizzare i nostri sogni; significa superare il muro dell’apartheid di Israele e sognare di abbatterlo; significa vedere la casa di uno di uno di noi demolita e ricostruirla».
Proprio tre giorni fa a Gerusalemme tale approccio è stato evocato anche dalla famiglia di Sheikh Jarrah che ha rifiutato di vendere per cinque milioni di dollari a delle famiglie israeliane il suo appartamento situato nel quartiere da cui rischiano di essere espulsi numerosi residenti arabi. «Per noi – ha spiegato Abdel Fattah Skafi, uno dei proprietari delle case – è una questione di principio: con le altre 27 famiglie del quartiere stiamo combattendo una battaglia di fermezza e di sfida ai piani di Israele».
Motivare e dare speranza
Manal spiega perché, a dispetto di tante difficoltà, l’emigrazione non sia un’opzione. «Frequentare un Master in Scozia per me è stata un’esperienza formidabile, tuttavia ho avvertito anche quanto la mia vita avesse meno valore lontano dalla patria. Ho capito che nell’affrontare in Palestina l’apparato di violenza, colonialismo e apartheid dell’occupazione israeliana la mia vita aveva un valore aggiunto: lottare per far vincere la giustizia». Ecco perché negli ultimi anni ha cercato con la sua organizzazione di unire le forze con quelle di realtà attive in altri paesi, come il Messico, contro i Muri in aumento nel mondo. «La parte più incoraggiante del mio lavoro è dare speranza. Ogni volta che riesco a creare dei legami fra persone che vivono all’estero e le nostre comunità, ricevo una dose extra di energia per continuare a vivere la resistenza e alimentare la speranza dei palestinesi».
La libertà, uno stato mentale
È stato anche questo che le ha spalancato le porte di una comprensione più profonda della libertà. «Io credo che la libertà sia uno stato interiore, non coincide necessariamente con uno stato fisico. Se dovessimo fermarci alla rappresentazione fisica della Palestina, non potremmo che raffigurarla come una prigione a cielo aperto circondata dal muro dell’apartheid e dalle strade riservate agli israeliani, dalle colonie, dai posti di blocco… ma io non la percepisco così perché penso che la libertà sia un modo di essere e resistere è una forma di dignità. Il lavoro che faccio potenzia questa certezza».