I cambiamenti climatici, il ciclo delle siccità, le temperature sempre più alte stanno uccidendo il «Grande Fiume» biblico. Ma forse ci sono anche dinamiche legate alle guerre in corso nella regione. E in Siria l'antico letto dell'Eufrate è ora un panorama desolato.
Per millenni l’Eufrate ha costituito l’arteria vitale per le popolazioni della Mesopotamia occidentale, ha dissetato, irrigato campi, contribuito a creare civiltà e imperi. Ora si sta prosciugando inesorabilmente in alcuni suoi tratti e milioni di persone in Siria e in Iraq non hanno più acqua per bere e mandare avanti l’agricoltura e l’allevamento di bestiame.
I cambiamenti climatici, il ciclo delle siccità, le temperature sempre più alte stanno portando via tutte le forze al «Grande Fiume» biblico. La sua portata è ai minimi storici – 150/200 metri cubi d’acqua al secondo contro i 600 metri cubi del secolo scorso – e, tra i contadini siriani e iracheni delle pianure che attraversa, vi è un senso di disperazione e disarmo. Senza l’Eufrate, anche per loro non c’è più vita.
Particolarmente grave è la situazione in Siria, dove cinque milioni di persone dipendono totalmente dalle acque del fiume e dei suoi affluenti. Sono concentrate nel Nord-Est del Paese, un tempo considerato il «granaio siriano», trasformatosi poi in un campo di mattanza della guerra civile: da queste parti i miliziani del sedicente Stato islamico (l’Isis) hanno conquistato Raqqa, per poi lanciarsi nella marcia attraverso l’Iraq fino a Mosul, proclamata nel 2014 capitale del Califfato nero e ripresa solo nel 2017 da soldati iracheni e miliziani filo-iraniani, sostenuti in quell’occasione, anche dagli Stati Uniti.
In Siria invece erano stati i curdi a guidare la controffensiva contro i seguaci dell’autoproclamato califfo Al Baghdadi, tra un coro di elogi e incoraggiamenti da parte dell’Occidente, salvo poi essere dimenticati e lasciati in balia delle vendette dei turchi, pronti a tutto pur di evitare la nascita di un’entità curda saldata agli indipendentisti interni. Molti sono pronti a scommettere che vi è un filo che lega i fatti della guerra di allora – in realtà mai terminata – ai problemi di oggi dell’Eufrate, non afflitto soltanto dai cambiamenti climatici.
Il fiume nasce dalle montagne circostanti l’Ararat e la Turchia ne controlla il flusso iniziale, attraverso un sistema di dighe e laghi artificiali, prima che il corso d’acqua passi in Siria e poi in Iraq, dove si unisce al Tigri per sfociare infine nel Golfo Persico. Il sospetto che Ankara abbia un po’ chiuso i rubinetti per assetare i nemici curdi – magari in vista di qualche nuova offensiva militare – esiste ed è dichiarato apertamente. Ankara nega qualsiasi responsabilità ed anzi si lamenta di soffrire degli stessi problemi di siccità.
Sta di fatto che le immagini dell’Eufrate trasmesse in questi giorni sono sconvolgenti, sebbene l’allarme sulla lenta agonia del grande corso d’acqua siano state lanciate da tempo. Le riprese televisive girate dall’alto, in territorio siriano, dall’emittente televisiva asiatica Wion-News mostrano quello che era uno dei più possenti fiumi dell’Asia occidentale (ed anche il più lungo con i suoi quasi 2.800 chilometri di percorso) ridotto in alcuni tratti ad un piccolo torrente che si apre a fatica la strada tra lastre di fango indurito e corrugato. Le case che, prima si trovavano sulla riva, compaiono incongruamente a chilometri di distanza dall’acqua, nel mezzo del nulla, circondate da un deserto di polvere.
Secondo i funzionari locali della Fao (l’agenzia dell’Onu per il cibo e l’agricoltura) il 75 per cento dei raccolti del 2021 è andato distrutto in Siria, con punte del 90 per cento. Ora è il tempo dell’aratura della terra e della semina e i contadini rimasti non sanno cosa fare: se indebitarsi ulteriormente per comprare semenze e fertilizzanti, rischiando di trovarsi nell’estate del 2022 senza nulla in mano, ancora più poveri, affamati e assetati di prima, o se andarsene anche loro, aggiungendosi a quella metà della popolazione siriana già sfollata all’interno o all’esterno della patria. La maggior parte ha già deciso e abbandonato la propria casa.
I villaggi – sempre dalle riprese della Wion-News – appaiono vuoti, tranne qualche famiglia sparpagliata qua e là. Si tratta di una terra dove un tempo abitavano molti cristiani. A Um Gharqan vi era, fino a inizio secolo, una comunità prospera che viveva di agricoltura e allevamento grazie alle acque del fiume Khabour, un affluente dell’Eufrate, famoso nel XX secolo per le sue inondazioni, ed ora completamente essiccato. «Giuro su Dio che era il Paradiso ed ora è diventato sinonimo d’inferno», spiega, in un servizio televisivo, una signora assiro-cristiana mentre indica un canale – diventato uno scolo dove si accumula l’immondizia – che prima portava l’acqua a campi di grano, di cotone, di orzo, a frutteti lussureggianti, a pascoli per gli animali. La donna mostra sul suo cellulare una vecchia foto della chiesa del villaggio, avvolta dal verde di alberi imponenti: la chiesa è stata distrutta nel 2014 dai miliziani dell’Isis, ed attorno alle macerie vi è ora un paesaggio lunare che si estende per chilometri fino all’orizzonte.