Il Patto per il Clima firmato in Scozia, al termine della Cop26 (31 ottobre – 12 novembre), la conferenza dell’Onu per fermare l’aumento della temperatura del pianeta entro 1,5° rispetto all’epoca preindustriale, per la prima volta fa riferimento ai combustibili fossili, ma è stato giudicato insufficiente per rispettare gli obiettivi. Entro il 2030, ad esempio, serve ridurre del 45 per cento le emissioni globali di anidride carbonica al livello del 2010. Ma ben pochi Paesi si sono impegnati a farlo.
Le promesse in Medio Oriente e Nord Africa
Considerando i principali obiettivi concordati a Glasgow, risulta che, dei 20 Paesi del Medio Oriente e Nord Africa (17 Paesi arabi, Iran, Israele e Turchia), solo sei, tra cui Israele, Marocco e Turchia hanno aderito all’impegno di mettere fine alla deforestazione. E soltanto Egitto, Israele e Marocco (insieme a una quarantina di altri Paesi) si sono impegnati a ridurre l’impiego di carbone nella produzione di energia elettrica.
Neppure la proposta di ridurre entro il 2030 di un terzo le emissioni globali di metano, più dannoso del diossido di carbonio, ha avuto ampie adesioni: su circa un centinaio di Paesi aderenti, in Medio Oriente e Nord Africa hanno espresso il loro assenso Arabia Saudita, Eau, Giordania, Iraq, Israele, Kuwait, Libia, Marocco, Tunisia.
Infine, l’obiettivo chiave – raggiungere a metà del secolo la neutralità carbonica, cioè l’equilibrio tra emissioni di gas serra e la loro rimozione dall’atmosfera – è stato annunciato da Israele ed Emirati Arabi Uniti per il 2050; la Turchia ha dichiarato di darsi come orizzonte temporale il 2053, mentre l’Arabia Saudita e il Bahrein il 2060 (ma senza specificare il piano per raggiungere l’obiettivo). Libano e Yemen si impegnano a discuterne. Gli altri (Algeria, Egitto, Giordania, Iran, Iraq, Kuwait, Libia, Marocco, Oman, Qatar, Palestina, Siria, Tunisia) non hanno fatto annunci.
In questo quadro di adesione «tiepida» dei Paesi della regione, non sorprende che l’Arabia Saudita sia uno dei Paesi – secondo quanto svela un documento riportato dalla Bbc – sospettato di ostacolare la stesura di un accordo che definisca con date certe l’abbandono dei combustibili fossili.
Un futuro di insicurezza alimentare
Dalla regione mediorientale e nordafricana, tuttavia, sono arrivati di recente alcuni tra i segnali più preoccupanti per le ripercussioni sugli equilibri già fragili di una produzione fondamentale: il cibo.
Temperature sempre più alte e precipitazioni irregolari hanno un impatto crescente in Medio Oriente. Quest’anno in Iran, Kuwait, Oman ed Emirati Arabi Uniti si sono registrate temperature superiori ai 50°. Aumenta la pressione sulle riserve idriche e preoccupano le conseguenze sulle produzioni, anche le più tradizionali.
Il sito di informazione Middle East Eye ha fornito alcuni esempi di crisi manifestatisi nel corso del 2021. La scarsità di piogge in Turchia è stata tra le cause degli incendi estivi (una quarantina) che hanno colpito decine di villaggi nel Sud dell’Anatolia, tra Antalya, Adana e Marsin. Campi, serre e fattorie sono stati danneggiati, mettendo a rischio l’autosufficienza alimentare del Paese. Anche le produzioni di ortaggi nel 2021 sono andare compromesse.
Ma incendi devastanti hanno interessato vari Paesi Mediterranei, dall’Algeria (Cabilia) alla Grecia (Eubea) all’Italia meridionale. La Turchia ha ratificato solo il 6 ottobre 2021 l’Accordo di Parigi sul clima, firmato nel 2016, ma è il Paese del Mediterraneo che quest’anno ha subito maggiormente i danni climatici e soffre anche per la cattiva gestione delle risorse idriche.
Un altro esempio: la produzione egiziana di manghi, considerata di alta qualità, soprattutto nella zona di Ismailia, è interessata dai cambiamenti climatici. L’aumento delle temperature durante i mesi della maturazione in estate ha compromesso l’80 per cento della produzione, con un’impennata dei prezzi. In Egitto si teme un impatto simile sulla produzione di grano, che avrebbe conseguenze sociali devastanti.
Olive e caffè, coltivazioni a rischio
Le olive, simbolo dell’identità palestinese, sono fonte di reddito per tante famiglie in Cisgiordania e a Gaza attraverso la produzione di olio, saponi e non solo. Le condizioni climatiche hanno dimezzato nel 2020 la produzione: il troppo caldo nei mesi primaverili ha compromesso i raccolti anche di questo autunno. Israele controlla quattro quinti delle risorse idriche della Cisgiordania, un fattore che non facilita le irrigazioni necessarie per rispondere alla siccità e per la prima volta il ministero dell’Agricoltura palestinese ha acconsentito a importare dall’estero prodotti derivati dalle olive.
Una delle culle storiche della produzione del caffè, lo Yemen ospita da secoli coltivazioni di diverse varietà, ma che richiedono temperature fresche ad elevate altitudini. Condizioni che sono sempre meno frequenti. La qualità Coffea arabica, ad esempio, è sensibile ai mutamenti del clima e alla irregolarità nelle precipitazioni. Secondo studi riportati dalla Bbc, a metà secolo circa la metà delle terre destinate a caffè di alta qualità potrebbe diventare improduttiva.
>>> Leggi anche: Eufrate in secca, in fuga 5 milioni di siriani
Nei fiumi della Mesopotamia, abbassamento delle acque dovuto alla costruzione di dighe, inquinamento industriale (circa il 70 per cento degli scarichi finisce nei fiumi), aumento della salinità nel sud dell’Iraq, costringono molte famiglie che vivono sull’industria ittica a trasferirsi per mancanza di risorse.
Sono alcuni esempi di conseguenze già in atto. In prospettiva, alcune città costiere in Egitto e in Iraq, come Alessandria e Bassora a metà del secolo potranno essere in parte sommerse per l’aumento dei livelli del mare. Al contrario, il livello delle acque di alcuni laghi della regione, a partire dal più esteso, il lago di Urmia in Iran, si sta abbassando, così come nel lago Milh, al centro dell’Iraq. Bacini che diventeranno aride pianure salate, in assenza di interventi efficaci. Molti rimandati alla prossima Cop, la numero 27, che sarà nel 2022 a Sharm el-Sheikh. (f.p.)