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Sheikh Jarrah, il compromesso dell’Alta Corte

Christophe Lafontaine
7 ottobre 2021
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Sheikh Jarrah, il compromesso dell’Alta Corte
Manifestazione di palestinesi e israeliani nel quartiere di Sheikh Jarrah il 16 aprile 2021. (foto Yonatan Sindel/Flash90)

Il massimo organo giudiziario di Israele ha proposto un compromesso sulla disputa tra palestinesi e israeliani nel quartiere di Sheikh Jarrah a Gerusalemme Est. Le parti hanno tempo fino al 2 novembre per un sì o un no.


A soli due mesi da una precedente e analoga proposta, lo scorso 4 ottobre la massima istanza della magistratura israeliana ha proposto a quattro famiglie palestinesi minacciate di sfratto a beneficio dei coloni israeliani a Sheikh Jarrah – un quartiere di Gerusalemme est – di restare nelle loro abitazioni come «inquilini protetti» che non potranno essere allontanati per almeno 15 anni.

Un simile compromesso – accolto o rifiutato che sia – determinerà il destino di altre 24 famiglie gravate dalla stessa minaccia di sfratto. Proprio la loro resistenza all’evacuazione forzata nella primavera scorsa ha generato rivolte a Gerusalemme, in Cisgiordania e nelle città miste di Israele, nonché, in maggio, a 11 giorni di conflitto tra Israele e le milizie del movimento Hamas, che controlla la Striscia di Gaza.

Il quotidiano israeliano Haaretz ha dettagliato schematicamente la proposta presentata dall’Alta Corte di Giustizia israeliana alle famiglie palestinesi e alla Nahalat Shimon International, un’organizzazione di coloni ebrei che è all’origine della minaccia di sfratto dei residenti palestinesi di alcuni immobili. Secondo lo spirito del compromesso, «a tre famiglie arabe sarà concesso lo status di inquilini protetti di prima generazione, il che significa che altre due generazioni della loro stirpe potranno mantenere questo status e rimanere nelle case; una delle famiglie sarà riconosciuta come inquilino protetto di seconda generazione, il che andrà a beneficio della generazione successiva».

Un compromesso accettabile?

In cambio, le famiglie palestinesi dovranno pagare, oltre alle spese legali, un affitto, seppur modesto, all’organizzazione Nahalat Shimon. Il che implicherebbe il riconoscimento della proprietà del gruppo di coloni, fino a quando non si giungerà a una definitiva soluzione giuridica della questione. Punto importante: i giudici propongono che l’organizzazione dei coloni si impegni ad «astenersi dall’adottare misure per sfrattare le famiglie o richiedere permessi di costruzione fino a quando non siano completati i procedimenti legali o siano trascorsi 15 anni dalla firma dell’accordo di compromesso», afferma Haaretz.

I giudici ritengono che durante questo arco di tempo si potrà giungere a una definizione per via giudiziaria della diatriba sulla proprietà immobiliare. Nel frattempo le famiglie palestinesi avrebbero quindi il diritto di dimostrare i loro diritti di proprietà così come il diritto di rinnovare, riparare e cambiare gli interni delle loro case ogni volta che lo desiderano, senza l’approvazione della società dei coloni.

La Corte ha dato tempo fino al 2 novembre a entrambe le parti per presentare i propri emendamenti alla proposta. Se il compromesso verrà rigettato, i giudici decideranno con una sentenza vincolante, osserva la stampa.

Gli avvocati delle famiglie palestinesi del quartiere, per il momento, non hanno reagito. Tuttavia, nell’agosto scorso, una proposta di compromesso più generale è stata respinta dai residenti che si sono rifiutati di riconoscere l’organizzazione Nahalat Shimon come proprietaria degli immobili. «Una cosa è chiara: non accetteremo mai che i coloni (…) siano proprietari delle nostre case», ha twittato il 5 ottobre Mohammed al-Kurd, scrittore e attivista palestinese di 23 anni, originario del quartiere e membro di una delle famiglie minacciate di sfratto. Insieme alla sorella gemella Muna, Mohammed è diventato un’icona nella lotta palestinese contro gli sfratti di Sheikh Jarrah.

Rompicapo giuridico e politico

Il contenzioso immobiliare è un imbroglio giuridico e politico che si trascina da 70 anni. Israele considera l’intera città di Gerusalemme come propria capitale. La maggior parte della comunità internazionale non riconosce tale decisione e i palestinesi vogliono che la parte orientale di Gerusalemme sia la capitale di un loro futuro Stato.

Nel 1956, 28 famiglie palestinesi si stabilirono a Sheikh Jarrah, in virtù di un accordo con la Giordania – che all’epoca controllava Gerusalemme Est prima della conquista israeliana nel 1967 – e l’Agenzia delle Nazioni Unite per l’assistenza ai profughi palestinesi (Unrwa). Le famiglie palestinesi accettarono di ricevere le case rinunciando in cambio al proprio status di profughi. Le proprietà degli immobili non furono però intestate a loro nome e ciò ha creato il vuoto giuridico che ha portato alla situazione attuale.

L’organizzazione Nahalat Shimon sostiene di detenere i diritti fondiari sulle proprietà di Sheikh Jarrah, legalmente acquisite prima del 1948, quando lo Stato di Israele divenne indipendente, e precedentemente di proprietà di due organizzazioni ebraiche. Il gruppo afferma di aver rinnovato la registrazione dei titoli di proprietà nel 1972.

Una legge israeliana approvata nel 1970 – tre anni dopo la Guerra dei Sei giorni e la presa di Gerusalemme Est – consente ai discendenti degli ebrei residenti nella città santa prima del 1948 di rivendicare proprietà nei quartieri orientali. Regola che non vale per i palestinesi…


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