Dalle recenti elezioni in Iraq è uscito vincitore il partito del leader religioso sciita Moqtada al-Sadr, che propugna l'affrancamento dall'Iran e dagli Usa. I mutamenti sostanziali saranno comunque pochi.
Ci vorranno settimane prima di capire quale governo uscirà dalle elezioni politiche che si sono svolte la scorsa domenica 10 ottobre in Iraq. A botta calda, comunque, tre dati saltano all’occhio: la bassa affluenza alle urne, solo il 41 per cento; il crollo dell’alleanza filo-iraniana Al Fatah, che passerebbe da 48 seggi a 14 e che contesta i conteggi; l’ottimo risultato del leader religioso Moqtada al-Sadr, il cui partito avrebbe ottenuto 73 dei 239 seggi complessivi del Parlamento. In apparenza un voto a favore dell’indipendenza dell’Iraq, perché l’affiliazione più aperta a Teheran è stata punita, mentre è stato premiato l’appello di Al-Sadr ad affrancarsi sia dall’Iran sia dagli Usa, ovvero i due Paesi che più influenzano la vita politica (e non solo quella) del Paese.
In realtà, nulla di tutto questo potrà avvenire e il voto per Moqtada al-Sadr non andrà oltre la manifestazione di un’insoddisfazione e una protesta che ha lunghe radici e che altro non è che il proseguimento istituzionale delle grandi manifestazioni trasversali (che cioè coinvolsero la popolazione di ogni credo religioso e convinzione politica) contro l’inefficienza e la corruzione che nel 2019 travolsero il governo di Adil Abdul-Mahdi. Da allora è cambiato il premier (ora in carica c’è Mustafà al-Khadimi, ex ministro degli Esteri ed ex capo dei servizi segreti) ma non la situazione generale, con le due caratteristiche principali: il dominio sulla scena politica dei partiti e movimenti sciiti e la sostanziale sfiducia dei cittadini nei confronti del potere.
Il che rimanda a una condizione generale dei Paesi del Medio Oriente, ovvero l’estrema difficoltà di produrre una classe dirigente “laica” degna di tal nome e capace di raccogliere la fiducia dell’elettorato. E quando si dice laica s’intende affrancata dalle due appartenenze prevalenti: quella al personale religioso islamico e quella al personale militare-sicuritario. Pensiamo all’Egitto da decenni governato da ex-generali o ex capi dei servizi segreti, all’Iran dominato dagli ayatollah, alla Siria dei politici-generali, ai tanti Paesi dell’Africa del Nord coi loro frequentissimi interventi dei militari, ai Paesi del Golfo Persico dove la religione è anche strumento di governo. In un certo senso allo stesso Israele, dove la carriera militare è così spesso condizione necessaria per quella politica.
Le continue turbolenze della regione, che possono conferire un ruolo sovradimensionato a religiosi e militari, non bastano a spiegare questo fenomeno. Conta, e molto, anche il rapporto tra chi comanda e la cosa pubblica, in molti casi gestita come una proprietà (individuale o di clan) e non come un servizio. E qui il discorso ovviamente si fa lungo, tira in ballo la storia, la cultura, l’evoluzione o l’involuzione del costume. Le vicende dell’Iraq, dove comunque si è votato con un grado accettabile di ordine e credibilità, come certificato dagli osservatori per la prima volta dispiegati dall’Unione europea, dimostrano che per vedere qualche significativo cambiamento molta altra acqua dovrà passare sotto i ponti.