Più che una rivista – al primo numero nella sua versione su carta – Arabpop è una comunità. O meglio, raccoglie attorno a sé una comunità di italiani, non solo arabisti, ma anche persone con varie professionalità e competenze di viaggio, vita e opera nel Medio Oriente allargato, che si è annoiata dei cliché applicati – dal 2001 ad oggi – alle sponde «altre» del Mediterraneo.
Cliché che descrivono gli arabi o le altre civiltà ed etnie dell’area (berberi, curdi, turchi, persiani, nubiani), per lo più inglobate nella generica definizione di cui sopra, come uomini con lunghe jallabjie bianche, sandali, kalashnikov, turbante e un Allahu akbar sempre in bocca. Quanto alle donne, si tratta di stendere un velo (nero) su un universo per nulla esplorato e abitato da stereotipi verificati poco e male.
In questo quadro post-orientalista, Arabpop – Rivista di arti e letterature arabe contemporanee spezza le sue lance in favore di un caleidoscopio di intenzioni artistiche ribollenti da quelle parti, a cui le rivoluzioni del 2011 diedero corpo fisico, sociale e artistico: istanze che restituiscono piazze composite in termini di classi sociali, posizioni ideologiche, visioni del mondo, età, generi, nazionalità, religioni e financo lingue e che non sono per nulla sopite, come testimoniano tutti i movimenti risorgenti in molti dei Paesi raccontati: Iraq, Palestina, Tunisia, Libano, Sudan, tra gli altri.
In questo desiderio di ricomposizione di un universo sconosciuto al grande pubblico e di proposizione di un punto di vista che coerentemente lo racchiuda, ci sembra eccellente l’avere puntato, per ogni numero della rivista – distribuita dall’editore Tamu di Napoli – su una parola chiave che, per la prima uscita, è “metamorfosi”. E non avrebbe potuto essere diversamente, considerate le trasformazioni veloci e anche violente che hanno attraversato gli ultimi dieci anni di storia dell’area tra manifestazioni di piazza, rivoluzioni, controrivoluzioni, conflitti e migrazioni. Si tratta di metamorfosi per le quali – e qui lo svela l’affondo, fornito in prefazione, dal direttore della rivista Chicco Elia – non vale combattere lo sguardo orientalista verso il Medio Oriente con il suo opposto uguale e contrario, ossia con l’assioma dell’«arabo o l’araba buoni», tirato fuori dal cilindro per dimostrare che gli arabi «non sono tutti terroristi».
Come in tutte le società complesse (e millenarie), bisogna rendere conto di un’ampia scala di grigi, ben riassunta nelle scelte delle curatrici Chiara Comito, Fernanda Fischione, Anna Gabbai, Silvia Moresi e Olga Solobrino per il primo numero. Probabilmente è lì, nel racconto Kafka a Tangeri di Mohammed Said Hijouij, scrittore e blogger marocchino con cui si apre la rivista – ricca di selezioni di poesia (Carol Sansour), letteratura (Sinan Antoon, Youssef Rakha, Jokha Alharti), fumetto (Lena Merhej, Lina Ghaibeh, Jad), brevi saggi su musica contemporanea (Serk el Wohoush, Amir Al-Shamy), architettura (Mohammad Alkouh), cinematografia (Roj Dib), teatro (Hosni el-Mokhless) e fotografia (Ali Zaaray) – che risiede il cuore di questa operazione: bisogna imparare ad abitare il divenire che ci cambia, ci trasforma, ci rende altro da noi, quando abitarlo significa anche non riconoscerci allo specchio, negare i noi stessi di ieri e non sapere chi saremo domani.
Ciò è esattamente il contrario dell’immutabilità divina, riflessa in un mondo ormai lontano e cristallizzato, tanto lontano e cristallizzato quanto gli stereotipi immutabili che continuano a descriverlo.