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Arabia Saudita e Iran, dialoghi dietro le quinte

Elisa Pinna
15 ottobre 2021
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Da diversi mesi Iran e Arabia Saudita, i due arcinemici in Medio Oriente, dialogano sotto traccia. Entrambi appaiono stanchi di guerre per procura e forse disponibili a un’inversione di rotta. Il primo a beneficiarne potrebbe essere lo Yemen.


Sta per inaugurarsi una fase nuova tra Arabia Saudita e Iran, dopo anni di ostilità, guerre per procura, assenza di rapporti diplomatici? In Medio Oriente sono in molti a sperarci.

Da diversi mesi i due arcinemici della regione dialogano sotto traccia. Ci sono stati già quattro incontri ad alto livello a Baghdad grazie all’intermediazione del governo iracheno, interessato a un’intesa tra i suoi vicini anche per ragioni di stabilizzazione interna. Dopo l’ultimo colloquio – avvenuto lo scorso 21 settembre nell’aeroporto della capitale irachena tra il capo del Consiglio di sicurezza iraniano Ali Shamkhani e il ministro degli Esteri saudita Adel Al Jubayr – il Regno wahabita e la Repubblica islamica hanno lasciato trapelare ottimismo. Entro qualche settimana – ha detto lo scorso 8 ottobre una fonte di Riyadh all’agenzia France Presse – potrebbe arrivare l’annuncio dell’apertura di un consolato saudita nella città sacra di Mashad in Iran, meta internazionale dei pellegrini sciiti, e di un consolato iraniano nella città portuale di Gedda, approdo per i fedeli in cammino verso la Mecca e Medina.

I rapporti, mai idilliaci tra le due potenze che da sempre cercano di affermare la propria supremazia sulla regione, si erano rotti nel gennaio 2016: la causa formale era stato l’assalto dato all’ambasciata saudita a Teheran da una folla inferocita per l’uccisione da parte del regime wahabita del leader della minoranza sciita nella penisola arabica. Ma sullo sfondo vi era la contrapposizione tra i due Paesi nelle guerre in Siria, in Yemen, e nello stesso Iraq.

Nel 2015 poi, l’Arabia Saudita, insieme ad Israele, si era apertamente opposta all’accordo di Vienna sul nucleare iraniano, che avrebbe dovuto sdoganare, nella comunità internazionale, la Repubblica islamica. Le cose, come sappiamo, sono poi andate diversamente con l’amministrazione statunitense di Donald Trump, che è uscita dall’accordo di Vienna e ha sposato l’atteggiamento bellicoso anti-iraniano dell’Arabia Saudita e di Israele.

Con la presidenza di Joe Biden, vi è stato un nuovo cambiamento di prospettive per i principali attori della politica mediorientale. ll principe ereditario saudita, Mohammed Bin Salman, sapendo di non avere più alle spalle la copertura incondizionata degli Stati Uniti, ha deciso che è arrivato il momento di disimpegnarsi dalla guerra in Yemen, da lui stesso voluta ma non più sostenibile per il suo Paese.

È da circa un anno che i sauditi cercano una via d’uscita e, proprio spinti da questa urgenza, hanno accettato le offerte di dialogo avanzate da tempo da Teheran. Entrate nel 2015, a capo di una coalizione araba, nel conflitto scoppiato tra il governo yemenita filo-saudita e i ribelli Houthi finanziati dagli iraniani, le forze armate di Bin Salman si sono impantanate nel loro “Vietnam”, senza riuscire – nonostante i massicci bombardamenti – né a contrastare l’avanzata del nemico né a contenere le mire espansionistiche del loro principale alleato, gli Emirati Arabi Uniti.

Ormai è chiaro a Riyadh che la guerra in Yemen non può essere vinta e vi è la necessità urgente di convincere o costringere gli Houthi a smettere di colpire con missili o droni le strutture petrolifere saudite. Due anni fa, in un attacco all’impianto di Abqaiq, i ribelli yemeniti riuscirono a dimezzare per un considerevole periodo la capacità produttiva di greggio della maggiore potenza petrolifera del mondo. Gli iraniani sono disponibili a fare pressioni sugli Houthi, ma chiedono un immediato disgelo diplomatico e la fine dell’ostracismo da parte di Riyadh su un eventuale nuovo accordo nucleare tra Repubblica islamica e Stati Uniti.

Entrambi i Paesi – dicono molti osservatori – appaiono stanchi delle guerre per procura e disponibili, almeno in questa fase, a un’inversione di rotta rispetto alla politica dell’escalation trumpiana: ciò potrebbe portare, come prima conseguenza, alla fine di un conflitto dai costi insopportabili per la popolazione yemenita, con oltre 250 mila morti, un numero incalcolabile di feriti, milioni di sfollati, fame e povertà. La determinazione saudita e iraniana a “risolvere” la guerra in Yemen è essenziale ma potrebbe non essere sufficiente, in quanto sul territorio yemenita si combattono tante battaglie parallele: dai secessionisti del Sud del Paese, agli scontri tra filoemiratini e filosauditi per il controllo di territori strategici, alle rivalità storiche di diverse tribù, fino al rientro in gioco di Al Qaeda. Fondamentale sarà poi capire quanto le pressioni di Teheran avranno successo nel fermare gli attacchi degli ormai vittoriosi Houthi, alleati sì, però non succubi della Repubblica islamica, e, sul fonte opposto, i termini in cui i sauditi riusciranno a “liquidare” il governo amico yemenita, tuttora riconosciuto a livello internazionale.

Insomma, il groviglio yemenita, in cui si intrecciano interessi interni e di diversi padrini regionali (compresi gli Emirati), non sarà facile da sciogliere. La buona notizia è però che –secondo gli osservatori mediorientali – Arabia Saudita e Iran, spinti dai loro interessi nazionali, si stanno impegnando concretamente. Inoltre una distensione tra Riyadh e Teheran, se riuscirà ad avviarsi pur tra mille limiti, non potrà che fare bene a tutta la regione.

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