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Stati Uniti e Medio Oriente, il tran tran di Biden

Fulvio Scaglione
23 settembre 2021
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In altre fasi storiche il Medio Oriente era una delle priorità della politica estera americana. Oggi invece sembra quasi abbandonato dalla Casa Bianca del presidente Joe Biden. Così i problemi rischiano di incancrenirsi.


Rappattumare i rapporti con la Russia e l’Europa per potersi dedicare con calma al confronto con la Cina in Asia. È questo il disegno strategico dell’amministrazione Biden, e gli eventi delle ultime settimane lo dimostrano. Il Medio Oriente, che in altre fasi era una delle priorità della politica estera americana, risulta invece abbandonato dalla Casa Bianca, che per la regione sembra affidarsi a uno stanco tran tran, una specie di ripetizione delle politiche di Donald Trump senza Trump. Tra Israele e i palestinesi di Gaza c’è stata l’ennesima guerra, ma gli Usa non sono andati più in là delle solite frasi fatte sul «diritto a difendersi» e dei rituali inviti alla moderazione. Nessuna novità, peraltro, nei rapporti con le parti. E con Israele, nonostante che sia cambiato il governo con l’uscita di scena di Benjamin Netanyahu, tutto è fermo al famoso Piano di pace presentato appunto da Trump.

Con l’Iran proseguono i contatti, ma i risultati ancora non si vedono. Nel Golfo Persico nulla cambia: la tradizionale alleanza con l’Arabia Saudita regge (diciamocelo: i documenti sull’11 settembre, appena desecretati per ordine del presidente Biden, sono solo un fiocchetto da mettere sul ventennale della tragedia delle Torri Gemelle), semmai prende tono il rapporto con il Qatar (che ospita la più grande base militare americana in Medio Oriente), diventato elemento essenziale di qualunque discorso sull’Afghanistan tornato talebano. Idem come sopra per l’Egitto (che, a dispetto di tutti i discorsi sulle violazioni dei diritti umani, sta per ricevere dagli Usa una tranche di 300 milioni di dollari d’aiuti militari) e per il tradizionale alleato Giordania.

L’immobilismo americano si nota ancor più nel quadro critico della pace-non pace che regna in Siria. Il presidente Bashar al-Assad, sostenuto dalla Russia di Vladimir Putin, ha riconquistato gran parte del territorio. Ma gli Usa, secondo la strategia disegnata a suo tempo dal segretario di Stato Mike Pompeo, mantengono circa 900 soldati in quella che, nella Siria pre-guerra, era la zona cruciale per la produzione di grano e per l’estrazione del petrolio, abitata da circa 4 milioni di persone. Trump voleva ritirare anche questo contingente ma i suoi generali riuscirono sempre a fargli cambiare idea. Resta il fatto che le truppe americane, oltre a controllare una parte vitale delle risorse economiche siriane, non concludono granché. Assad non lo combattono. Dovrebbero proteggere gli alleati curdi (che si presero sulle spalle gran parte delle battaglie di terra contro l’Isis) ma intanto la Turchia (Paese Nato) appena può li bombarda, com’è successo anche nei giorni scorsi. Dovrebbero stroncare il jihadismo, ma intanto nella provincia di Idlib i qaedisti di Hayat Tahrir al-Sham consolidano la presa sul territorio e pian piano lo trasformano in un Afghanistan mediorientale. Dunque?

È ovvio che non tutte le colpe di questa situazione sono degli Stati Uniti. Ed è anche vero che, dal punto di vista politico, essi stanno ottenendo il massimo risultato con il minimo sforzo. Questa strategia, però, ha anche l’effetto di prolungare tutto all’infinito, comprese le sofferenze delle popolazioni locali, proprio quando è chiaro che i Paesi arabi vorrebbero rimettere in moto la situazione (i contatti con il governo di Assad, piaccia o non piaccia, sono sempre più frequenti) e la Russia vorrebbe in qualche modo uscire (Assad è stato a Mosca nei giorni scorsi) dalle sabbie poco mobili e dagli impegni gravosi in cui si trova (come peraltro capitato altrove anche agli stessi americani) dopo la “vittoria” in Siria.

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