Il capodanno ebraico, che inizia questo 6 settembre, è un po’ speciale per Israele: il Paese sta entrando infatti nell’anno della shmita. Per l’ebraismo ogni sette giorni, uomini e animali dovrebbero riposare. Lo stesso principio si applica alla terra, al suolo: ogni sette anni ha diritto al suo anno sabbatico. La legge ebraica vieta di coltivare e raccogliere i suoi frutti. Il comandamento, dalla Torah, si riferisce solo alla terra d’Israele e lo Stato ebraico lo ha rispettato a livello nazionale sin dalla sua fondazione nel 1948. Il che richiede molti aggiustamenti e altri equilibrismi giuridici in quanto è un intero comparto economico ad essere stravolto.
Qual è il significato di shmita?
Troviamo il comandamento di shmita («lasciar andare/liberare» in ebraico) nel libro dell’Esodo. «Per sei anni seminerai la tua terra e ne raccoglierai il prodotto, ma nel settimo anno non la sfrutterai e la lascerai incolta: ne mangeranno gli indigenti del tuo popolo e ciò che lasceranno sarà consumato dalle bestie selvatiche. Così farai per la tua vigna e per il tuo oliveto» (Esodo 23,10-11).
Quest’anno maggese è anche l’anno del rimborso del debito, secondo il Deuteronomio. «Questo difficile comandamento aveva lo scopo di connetterci profondamente con la terra di Israele. L’anno sabbatico ci insegna che abbiamo il privilegio di vivere in una terra speciale e santa», afferma il rabbino Zev Whitman sul sito web del Keren Kayemeth LeIsrael (il Fondo nazionale ebraico). «Il comandamento punta a ripartire più equamente il raccolto della terra e serve a ridurre il divario tra ricchi e poveri. Mette l’accento sulla fiducia in Dio per provvedere ai bisogni dell’uomo. Può anche essere visto come un modo per preservare la terra in modo ecologico», afferma il sito.
Come si osserva concretamente?
Poiché il comando si applica solo alla terra biblica di Israele, divenne largamente teorico una volta che gli ebrei furono esiliati dai romani nel 136 d.C. Gli agricoltori ebrei in Europa e nel Medio Oriente non dovettero lasciare la terra incolta. Fu quando gli ebrei iniziarono a stabilirsi in Palestina e fondarono i kibbutz nel 1880 che la questione della shmita iniziò a porsi nuovamente… e ad essere problematica.
Per gli agricoltori che stanno già lottando per coltivare frutta e verdura in una regione arida, fermare la produzione per un anno potrebbe essere fatale. E poi come ci si procura il cibo se non si coltiva nulla? Per aggirare questo problema, i rabbini hanno escogitato una disposizione chiamata heter mechirah, o «permesso di vendita». Lo schema consente agli agricoltori ebrei di “vendere” la loro terra a non ebrei locali (di solito palestinesi) per una cifra simbolica, quindi assumere non ebrei per svolgere il lavoro proibito. Poiché la terra non è più loro propriamente parlando, non peccano e i loro prodotti rimangono kosher. Questa scappatoia non è accettata dagli ebrei ultra-ortodossi
Un’altra soluzione è l’Otsar Beit Din. Durante la shmita, gli agricoltori non sono autorizzati a vendere i loro raccolti. Ma se il prodotto è stato piantato l’anno prima, le persone possono prenderlo gratuitamente. Così, attraverso un meccanismo legale, un consiglio rabbinico assume dei contadini per raccogliere i frutti e gli ortaggi che verranno venduti in una forma di cooperativa religiosa. In questo modo gli ebrei osservanti non pagano il prodotto in sé, ma il lavoro del contadino: il prodotto resta gratuito. Inoltre, la shmita non riguarda le colture fuori suolo. I contadini che lasciano davvero riposare la loro terra, in definitiva, sono pochi.
Quali sono le conseguenze?
Tutto ciò ha un costo. Secondo il Plants Production Board, un organismo israeliano per promozione dell’agricoltura, gli anni a maggese vedono la produzione agricola diminuire tra il 10 e il 15 per cento, così come i redditi degli agricoltori. Il governo israeliano compensa stanziando fondi, come i 100 milioni di shekel (24 milioni di euro) distribuiti durante la precedente shmita, nel 2014-2015.
A fronte di una minore produzione si parla di maggiori importazioni, perché bisogna continuare a sfamare i consumatori israeliani. È stato appena firmato un accordo con la Giordania per dare priorità alle sue esportazioni di frutta e verdura in Israele. Nel 2015 anche le fragole coltivante nella Striscia di Gaza sono arrivate sui banchi dei mercati israeliani, per la prima in sette anni, riferisce un giornalista di Rfi.