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Profughi siriani, l’invettiva del libanese Aoun all’Onu

Fulvio Scaglione
29 settembre 2021
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Le organizzazioni internazionali e i governi di molti Paesi trascurano il tema del rientro in patria dei milioni di profughi siriani fuggiti all'estero dal 2011. Vani gli appelli a rientrare. Molti non si fidano o hanno perso tutto. Un fardello ormai insopportabile per il Libano.


Michel Aoun, presidente del Libano, ha partecipato alla recente assemblea generale delle Nazioni Unite con un video messaggio. In esso ha lanciato una dura critica alla comunità internazionale sulla questione dei rifugiati siriani che, a partire dal 2011, si sono ammassati nel suo Paese. «Ne ho parlato in molte occasioni, soprattutto qui alle Nazioni Unite, sottolineando le disastrose conseguenze in termini di economia, salute e sicurezza, e molte volte ho chiesto un aiuto per garantire loro un tranquillo ritorno in patria. Nessuno ha risposto».

Il Libano, con meno di 7 milioni di abitanti, è da molti anni rifugio per 850 mila profughi, ma con una popolazione «siriana» che supera il milione e mezzo di persone. Con ricadute traumatiche per entrambe le parti. Nelle scuole ci sono più bambini siriani che libanesi. La disperazione dei profughi, in gran parte ammassati nei campi, ha alimentato un mercato del lavoro nero e sottopagato che, a sua volta, ha peggiorato le condizioni di lavoro anche di molti libanesi. Su tutto, poi, è arrivata la crisi economica, che ha precipitato il 60 per cento della popolazione libanese nella povertà. Possiamo figurarci, di riflesso, quali siano le condizioni di vita dei profughi siriani.

Come si sa, il governo del presidente Bashar al-Assad lancia continui appelli per il rientro dei profughi, sia dal Libano sia dalla Turchia, che ne ospita due milioni e mezzo (ma ci sono stime non ufficiali che portano la cifra a 5 milioni). L’impresa è, però, disperata. Molti non si fidano di Assad e delle sue politiche (e magari non se ne fidavano nemmeno prima della guerra), temono rappresaglie. Altri temono il residuo jihadismo e le sacche di guerra ancora accese in Siria. Tutti hanno perso parte importante dei loro beni, e dopo tanti anni non sanno nemmeno se valga la pena tornare. Qualcuno spera di riuscire ad approdare in Europa, attraverso i corridoi umanitari e le organizzazioni umanitarie che lavorano nei campi. Per i siriani bloccati in Turchia dall’accordo che il presidente turco Recep Tayyip Erdogan ha firmato con l’Unione europea nel marzo 2016, c’è una difficoltà in più: la perenne guerriglia nel Nord del Paese, proprio lungo il confine, animata da turchi, curdi, russi, siriani e islamisti di vario genere.

Così l’appello del presidente Aoun è purtroppo destinato a cadere ancora una volta nel vuoto. Troppi gli attori politici coinvolti, nessuno dei quali (nemmeno la Russia, nemmeno gli Usa, per non parlare dell’Onu) ha la forza per imporre, da solo, una soluzione. Troppi e troppo importanti gli interessi di parte. Ma i profughi della Siria sono più numerosi della popolazione della Grecia, il doppio almeno di quella dei Paesi Baltici, della Danimarca o dell’Irlanda, e potrebbero tranquillamente popolare il Portogallo. Il disinteresse della comunità internazionale (di cui fanno parte molti Paesi che hanno contribuito ad accendere o ad acuire la crisi siriana) è un crimine.

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