Può essere utile, in queste settimane, ascoltare anche la voce dei romanzieri afghani. Sono più di quanti si possa immaginare per un Paese dove tre persone su cinque sono analfabete. Quattro proposte di lettura.
La cronaca delle ultime settimane ha riacceso l’attenzione di tutti sull’Afghanistan. Un’ampia letteratura di saggi – dallo storico Il Grande Gioco di Peter Hopkirk (Adelphi, 2004) a Talebani: Islam, il petrolio e il Grande scontro in Asia centrale di Ahmed Rashid (Feltrinelli, 2010) – può aiutare ad inquadrare con maggiore profondità gli avvenimenti delle ultime settimane.
Tuttavia, per accostarsi al sangue che scorre nelle vene di quel Paese – un mosaico di etnie tribali e di culture iraniche e turche – può essere utile ascoltare anche la voce dei romanzieri afghani. Sono tanti, più di quanti si possa immaginare per un Paese dove tre persone su cinque sono analfabete. Il problema è la loro scarsa visibilità: la scrittura letteraria è in persiano dari, la versione afghana del farsi e le opere circolano per lo più solo in Iran e in Tagikistan, oltre che in patria.
Alcuni libri sono comunque riusciti a sfondare, a diventare successi e ad essere tradotti anche in italiano. Eccone un breve elenco:
• Il cacciatore di aquiloni, di Khaled Husseini (pubblicato da Piemme in varie edizioni), è il più celebre.
Scritto direttamente in inglese da un figlio di profughi afghani residenti negli Stati Uniti, è un best seller mondiale. A chi non l’avesse ancora letto diciamo che racconta l’infanzia di due bambini, Amir e Hassan, entrambi senza madre e allattati dalla stessa donna. Sono amici, crescono insieme, ma tra loro vi è un abisso sociale. Amir è di famiglia ricca e sunnita. Appartiene all’etnia maggioritaria afghana, quella dei pashtun (di cui fanno parte i talebani). Hassan, figlio di un servo del padre di Amir, è sciita e di etnia hazara, la più perseguitata nel Paese. Durante l’annuale gara degli aquiloni, Amir, per codardia, abbandona l’amico alle violenze feroci di un branco di ragazzi. In seguito all’invasione sovietica, Amir si trasferisce con il padre negli Stati Uniti. Il senso di colpa verso l’amico Hassan continua a tormentarlo, fin quando non ha la possibilità di redimersi, tornando in una pericolosa missione nell’Afghanistan dei talebani.
• Pietra di pazienza, di Atiq Rahimi (Einaudi, 2009).
In una zona di guerra, una donna si prende cura del proprio marito, in coma dopo essere stato colpito da un proiettile al collo. La protagonista è stata abbandonata da tutti. Mentre cerca di accudire l’uomo, comincia a raccontargli i suoi dolori, i suoi segreti, in un crescendo che la porta a gridare la sua rabbia contro gli uomini, il matrimonio, la guerra, lo stesso Dio. Il marito ferito e privo di coscienza si trasforma nella “Pietra di pazienza” della leggenda persiana. Si tratta di una pietra magica a cui si può confessare qualunque cosa perché un giorno esploderà liberando il confessore da tutti i suoi tormenti. Rahimi, fuggito dall’Afghanistan durante l’occupazione sovietica, è riuscito a trovare rifugio in Francia. Con questo suo primo libro scritto in francese (i tre precedenti erano in persiano dari) ha vinto il prestigioso Premio Goncourt.
• Perduti nella fuga, di Mohammad Asaf Soltanzade (Aiep, 2004).
Scritto in persiano dari, raccoglie otto racconti legati alla fuga e ad uno spaesamento quasi surreale (erano i tempi dell’invasione sovietica dell’Afghanistan, nel 1979). Ciascuno fugge da qualcosa di ineluttabile, come ad esempio il protagonista del primo racconto (dal sapore autobiografico), arrivato come profugo a Teheran, dove – in uno stato di angoscia e autoisolamento – rifiuta di ricevere le notizie tragiche della sua famiglia rimasta in Afghanistan. Anche le altre storie narrano di vittime della violenza, della povertà, della disperazione: un contadino che cerca di vendere i figli al mercato, una prostituta, un giocatore di carte, un guerrigliero crivellato di colpi. Tutti cercano di rimandare i conti con il destino, perdendosi nel sogno, nell’immaginazione, in un soffio estremo di vita.
• I Fichi Rossi di Mazar-e-Sharif, di Muhammad Hussein Muhammadi (ed. Ponte33, 2012).
È una raccolta di quattordici racconti, tutti scritti in dari e in prima persona, con lo sguardo soggettivo dei protagonisti. Tra gli autori qui citati, Muhammadi è stato l’ultimo a lasciare l’Afghanistan. Si è trasferito in Danimarca circa cinque anni fa, quando il suo Paese era ancora sotto “protettorato” americano, ma le minacce di morte dei talebani e le taglie sulla sua vita si erano intensificate. I suoi personaggi vivono costantemente l’esperienza dolorosa di una guerra mai finita. È un libro duro, che richiede al lettore di immedesimarsi e vivere i sentimenti di personaggi tragici, dal piccolo mendicante di Kabul alla figura complessa e contradditoria di un combattente talebano. Lo scrittore ha anche fondato una piccola casa editrice, la Taak, che negli ultimi anni ha sostenuto la diffusione in Afghanistan della letteratura contemporanea locale e ha valorizzato una nuova generazione di scrittori e scrittrici. Ora però, nella nuova era dell’emirato islamico, la sorte dell’impresa è alquanto incerta.