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Il nuovo cinema iracheno trova ammiratori a Venezia

Laura Silvia Battaglia
20 settembre 2021
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Il nuovo cinema iracheno trova ammiratori a Venezia
Un'inquadratura del film Hanging Gardens.

Ancora in fase di produzione, il film Hanging Gardens del regista Ahmed al-Daraji, ha ottenuto un premio a Venezia. Espressione di una generazione di giovani cineasti iracheni alla ricerca della propria identità.


Ha sorpreso, incantato, incuriosito la giuria. Perché la trama è geniale, e lo sviluppo è poetico, ma allo stesso tempo ironico e surreale, per nulla scontato. Hanging Gardens, film del regista iracheno Ahmed al-Daraji, è una storia visionaria e coraggiosa, che fa già discutere. Girata in Iraq, prodotta da Huda al-Khadimi di Ishtar production Iraq, da May Odeh della Odeh production e da Margaret Glover del londinese 7th Eaven Studios, ha vinto la sezione Final Cut in Venice in occasione della recente 78.ma Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia. Questo vorrà dire che il film – presentato in versione semilavorata e ancora bisognoso di una spinta produttiva e di un ulteriore finanziamento in fase di finalizzazione –, grazie al premio di 5mila euro ottenuto al Lido, giungerà a compimento. Uscirà nel 2022 e concorrerà al festival di Cannes. La notizia non è tanto e solo che un film iracheno riceva un riconoscimento così ambìto, ma che l’Iraq torni a fare parlare di sé in Europa, fuori dalle dinamiche di guerre, terrorismi e orrori a cui la sua storia ci ha abituato negli ultimi trent’anni.

In un certo senso la pellicola è proprio frutto di questi anni, e del macerarsi di una giovane generazione di registi e cineasti, cresciuti durante l’occupazione americana (iniziata nel 2003) sognando l’Europa. Ahmed Yassin al-Daraji (nato nel 1986) è uno di loro. Una figura carismatica, capace di raccogliere intorno al set altre personalità (dall’aiuto-regista al direttore della fotografia e all’assistente alla produzione), venute su come lui a Baghdad e, dopo l’accademia di cinema, emigrate in Francia, Inghilterra, Germania, Paesi Bassi.

«Raccontiamo la perdita dell’innocenza: che cosa voglia dire per un bambino iracheno entrare a contatto con una cultura diversissima e invasiva. L’occupazione americana ha cambiato completamente la nostra generazione, non sempre in peggio: è una generazione che guarda al resto del mondo, soprattutto occidentale, e sogna per l’Iraq benessere per i suoi cittadini, assenza di corruzione, civiltà, libertà, modernità. Non per imitare l’Occidente, ma trovando la sua via e un rinnovato orgoglio nazionale». La riflessione di al-Daraji passa anche per il rifiuto di una visione dell’Iraq secondo schemi orientalisti, in cui il Paese è la terra dell’Hic sunt leones e c’è sempre un occidentale a ristabilire la giustizia, salvare, redimere, democratizzare. «L’ispirazione per Hanging Gardens – spiega il regista – è arrivata quando ho visto American Sniper (di Clint Eastwood, 2015 – ndr): film bellissimo, per carità, ma che replica questi schemi. Mi sono detto: Adesso basta! Diamo voce agli iracheni».

I produttori di Hanging gardens ne hanno colto subito le potenzialità. La co-produttrice May Odeh, presente al Lido Venezia, racconta di come sia rimasta affascinata dalla storia e dalla trama portante del film non appena letto il copione, durante un festival in Egitto, ma anche di quanto la scommessa sia impegnativa. «Tutti sanno – osserva – quanto sia difficile produrre cinema in Medio Oriente, dove però ci sono migliaia di storie da raccontare. Ci vuole una certa dose di follia da queste parti. Portare a termine un film è un miracolo perché la cultura non è nelle priorità dei governi locali. Nel caso specifico, vediamo sì film sull’Iraq, ma mai film realizzati in Iraq con registi e tecnici iracheni e con un cast iracheno. In questo Hanging gardens è una felice eccezione: anche l’ultima comparsa del film è irachena. Ed era ora, finalmente».

La gestazione del film non è stata facile, ma la marcia in più è data dal lavoro di sviluppo a quattro mani con Margaret Glover, mentore di al-Daraji a Londra, dove il regista iracheno si è formato negli ultimi dieci anni. «Questa è una storia sulla sacralità della vita – dice la Glover dal suo studio di produzione, senza celare l’entusiasmo – : nella trama il protagonista, un bambino iracheno orfano, recuperata una bambola a grandezza naturale in una discarica, vede in essa la madre che non ha più: le dà un nome, la cura e la protegge. Tutto si sviluppa intorno alla relazione tra il bambino e la sua comunità, quella degli adulti, smaliziati e già corrotti. Per me è stato molto importante, da americana, contribuire a una storia vista con gli occhi degli iracheni e in cui il mio ruolo, in quanto americana, è stato spesso messo in discussione».

Il regista Ahmed Yassin al-Daraji ha fortemente voluto una scrittura a quattro mani: è un giovane che vive a cavallo tra due mondi, un migrante frutto di quella contaminazione che caratterizza i ventenni iracheni oggi. «Questo film è anche lo specchio di un conflitto: quello tra la generazione di mio padre, che ha 50 anni, e la mia che ne ho ormai 35. Noi venti-trentenni abbiamo subito il post-dittatura e il post-conflitto: abbiamo ereditato una società frammentata e abbiamo perso la nostra identità. Mentre la generazione di mio padre ha deciso di lasciarsi andare, di cedere, la nostra no». Wareth Kwaish, assistente alla produzione e pure lui regista, cresciuto a Parigi, lo sottolinea: «La nostra è la generazione della rivoluzione dell’ottobre 2018. Siamo andati in piazza, abbiamo protestato contro la corruzione, i governi, le milizie. I nostri amici sono stati uccisi. Per non essere uccisi anche noi, abbiamo deciso di fare dell’arte la nostra arma e, con l’arte, fare, a modo nostro, politica».

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