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Le incognite del crepuscolo statunitense in Iraq

Laura Silvia Battaglia
10 agosto 2021
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Volge al termine la presenza militare statunitense in Iraq, iniziata nel 2003. Una ritirata punteggiata di attacchi da parte delle milizie filo-iraniane, che restano sul terreno e minacciano anche l'azione degli attivisti per i diritti umani.


Dopo l’Afghanistan, inizia il conto alla rovescia finale per le truppe americane in Iraq. Durante un incontro alla Casa Bianca, il 26 luglio scorso il presidente degli Stati Uniti Joe Biden e il primo ministro iracheno Mustafa al-Kadhimi hanno concordato che la missione militare degli Stati Uniti in Iraq, iniziata con l’invasione del 2003, si concluderà formalmente entro la fine del 2021.

Altri faccia a faccia tra Biden e Kadhimi verranno nei prossimi mesi per proseguire il dialogo strategico tra le due nazioni. Attualmente sono 2.500 i soldati statunitensi in Iraq impegnati nel contrastare ciò che resta del sedicente Stato Islamico: ma nonostante il rischio di una rinascita del terrorismo targato Isis, è ormai deciso che il ruolo degli Stati Uniti in Iraq si sposterà interamente solo sull’addestramento all’esercito nazionale e sulla consulenza strategica, attività che gli Stati Uniti comunque svolgono già da anni e che ha bisogno solo di un perfezionamento finale, di cui per ora non si conoscono i dettagli.

La presa di distanza americana obbedisce alla scelta dell’amministrazione Biden di defilarsi progressivamente dal teatro militare mediorientale, e avviene dopo una serie di attacchi alle truppe americane da parte delle milizie filo-iraniane: solo nell’ultimo mese, i diplomatici e le truppe statunitensi in Iraq (e in Siria) sono stati presi di mira in tre occasioni con razzi e droni.

Il primo ministro Mustafa al-Kadhimi è visto come amico degli Stati Uniti e ha cercato di controllare il potere delle milizie irachene alleate con l’Iran. Tuttavia ha cercato di aggiustare il tiro quando ha condannato un raid aereo statunitense contro i miliziani filo-iraniani lungo il confine con la Siria alla fine di giugno, definendolo «una violazione della sovranità irachena». La dichiarazione d’intenti Usa-Iraq dovrebbe specificare nel dettaglio anche una serie di accordi non militari relativi alla salute e all’energia.

Sul piatto c’è anche la fornitura all’Iraq di 500mila dosi del vaccino Pfizer/BioNTech contro il Covid-19 nonché 5,2 milioni di dollari per aiutare a finanziare una missione delle Nazioni Unite incaricata di monitorare le elezioni di ottobre prossimo in Iraq. Questa notizia attesa non rende comunque sereni molti iracheni, soprattutto coloro che avvertono come una minaccia effettiva la pressione delle milizie filo-iraniane.

L’uccisione di Ali Karim, il figlio ventiseienne dell’attivista di Bassora Fatima al-Bahadly, trovato morto con due ferite d’arma da fuoco alla testa e una terza al petto, ha rinfiammato le piazze. Ali Al-Bayati era scomparso 24 ore prima del ritrovamento del suo corpo, nell’area di al-Zubair, a circa 50 chilometri da Bassora. L’assassinio è stato letto come una vendetta da parte delle milizie contro la madre Fatima, minacciata da un anno, e accusata di essere – come accade spesso agli attivisti iracheni per i diritti umani – una spia dei governi occidentali, americano in particolare, soprattutto dopo che le è stato conferito il premio irlandese Frontline Defenders Award per il suo attivismo. Fatima ha fondato l’associazione al-Ferdaws, che aiuta, protegge e istruisce le donne e le ragazze colpite dalle conseguenze delle guerre in Iraq e combatte il reclutamento dei giovani nelle milizie locali.

La al-Bahadly aveva denunciato le minacce di cui è sempre stata oggetto all’organizzazione per i diritti umani Front Line Defenders e, anche in questa occasione, nonostante non ci sia stata alcuna rivendicazione, ha denunciato come responsabili dell’accaduto le milizie filo-iraniane Asaib Ahl Haq. L’altro suo figlio, Ahmed, era stato trovato impiccato in un sospetto omicidio alcuni anni fa e anche in quel caso Fatima aveva accusato le stesse milizie.

Dalle proteste di piazza dell’ottobre 2019 in Iraq, in cui migliaia di manifestanti chiedevano un Paese meno corrotto e dipendente dalle potenze regionali, soprattutto dall’Iran, più di 80 attivisti sono stati oggetto di assassinio o tentato omicidio, mentre una decina è stata oggetto di rapimento. Secondo gli attivisti, l’exit strategy americana non farà altro che peggiorare la situazione. L’Unione europea ha commentato l’uccisione di Ali Karim chiedendo «un’indagine seria e completa» alle autorità irachene.

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