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Beirut un anno dopo l’esplosione del porto

Jacques Berset per cath.ch
4 agosto 2021
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Beirut un anno dopo l’esplosione del porto
Beirut, nel quartiere cristiano di Gemmayzeh, devastato dall'esplosione di un anno fa, i più poveri cercano cibo nei cassonetti dei rifiuti. (foto Jacques Berset)

Nel primo anniversario della gigantesca esplosione che il 4 agosto 2020 ha devastato il porto di Beirut e i vicini quartieri cristiani, causando la morte di oltre 200 persone e 6.500 feriti, i libanesi oscillano tra rivolta e fatalismo.


I nomi dei «martiri» uccisi dall’esplosione sono visibili sul muro che costeggia la strada a lato del porto, insieme ad alcune foto di bambini già sbiadita con il passare del tempo. Un’enorme scultura di rottami contorti, una forma umana che tiene una colomba di metallo a distanza di un braccio, si erge di fronte alle rovine dei silos di grano sventrati dall’esplosione di 2.750 tonnellate di nitrato di ammonio, immagazzinate in un hangar al porto lasciato incustodito dal 2014.

«È stato montato dai manifestanti della thawra (rivoluzione) che protestano contro il governo dall’ottobre 2019. La gente non ne può più della classe politica che si spartisce la torta senza badare ai bisogni della popolazione», afferma Wajih Raad, un avvocato che ci accompagna nelle strade di Gemmayzeh che portano ancora molte stigmate del disastroso 4 agosto 2020.

Beirut, lungo la strada che costeggia il porto si snodano i nomi delle oltre 200 vittime dell’esplosione del 4 agosto 2020. (foto Jacques Berset)

Lutto nazionale

Il primo anniversario di quella terribile giornata è stato dichiarato giorno di lutto nazionale dal Consiglio dei ministri, con sospensione dei lavori nelle amministrazioni e nelle istituzioni pubbliche. La folla si raduna al porto di Beirut per una cerimonia presieduta dal Patriarca maronita Bechara Rai. La popolazione, travolta dalla profonda crisi che attanaglia il Paese dall’ottobre 2019, la corruzione endemica, le infrastrutture pubbliche in disfacimento, ospedali sull’orlo del collasso a causa della pandemia di Covid-19, non riesce a vedere la fine del tunnel.

Negli ospedali molte infermiere sono andate a lavorare all’estero, così come i medici. Gli insegnanti delle scuole cattoliche, i cui stipendi non sono più sufficienti per mantenere le famiglie, si dimettono per emigrare. Alla fine dello scorso anno sono state inviate alle ambasciate dei Paesi dell’Unione europea, di Canada e Stati Uniti più di 380 mila richieste di moduli per l’emigrazione.

La maggioranza tra povertà e miseria

Ben oltre metà della popolazione vive al di sotto della soglia di povertà. Oggi si può parlare perfino di miseria. Al collegio della Sacra Famiglia a Jounieh (una ventina di chilometri da Beirut) suor Eva Abu Nassar, la responsabile amministrativa, confida di aver perso una ventina di insegnanti tra giugno e luglio. «La maggior parte vuole emigrare perché non riesce a sbarcare il lunario. Il potere d’acquisto è calato drasticamente: se prima della crisi uno stipendio iniziale di 1 milione e mezzo di lire libanesi equivaleva a circa 1.000 dollari, con il crollo di valore della lira, oggi equivale solo a 75-80 dollari. Un insegnante con anzianità guadagna il doppio, ma è comunque del tutto insufficiente. Prima della crisi un dollaro valeva 1.500 lire libanesi, adesso viene scambiato al cambio in nero quasi a ventimila lire».

E poiché il Libano importa quasi tutti i suoi beni di consumo, tutto deve essere pagato in dollari. «Una confezione di latte per bambinie, e ne servono due a settimana, costa 250mila lire – continua suor Eva –. L’abbonamento a un generatore di corrente (perché l’elettricità pubblica viene fornita solo 2-4 ore al giorno) ammonta a 600mila lire al mese, quando il salario minimo è di 675mila lire. Un pezzo di ricambio per l’auto vale dai 2 ai 4 mesi di stipendio… Qui a Jounieh, un paese che non ha la fama di essere povero, le famiglie vanno a cercare cibo nella spazzatura, la mattina presto, per non farsi vedere!».

«Ne usciremo!»

Molti negozi hanno abbassato le saracinesche, i ristoranti che si susseguivano lungo le strade trafficate sono quasi tutti chiusi, il quartiere sembra morto: niente a che vedere con gli anni prima della crisi. «L’atmosfera è cupa, la gente vorrebbe poter andarsene, ma come? », osserva Wajih, che nonostante tutto vuole essere ottimista contro ogni previsione. «Ci vorranno anni, ma ne usciremo!».

Accanto, nel quartiere di Mar Mikhael, l’imponente edificio della sede di Electricité du Liban, completamente devastato, mostra le sue finestre spalancate. Lì vicino, su un grande affresco murale già in rovina, una scritta recita: «Che cosa ci riserva il futuro?».

«Papa Francesco ci dà speranza per affrontare questa crisi, invitando la Chiesa universale a non lasciarci cadere – conclude padre Raymond Abdo, provinciale dei Carmelitani Scalzi in Libano, che ci accoglie nel convento di Nostra Signora del Monte Carmelo, ad Hazmieh, periferia di Beirut –. Il Papa non abbandonerà la Chiesa del Libano. Ritroviamo un po’ di fiducia, nonostante tutte le difficoltà. Perché avere paura dell’altro, quando abbiamo fede in Gesù Cristo! In una società prevalentemente musulmana, a partire dai valori cristiani, dobbiamo essere lievito. Anche se è piccolo, fa fermentare tutto l’impasto».

 

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