«Per tutti i credenti, e in particolare per i cristiani, Gerusalemme è il luogo-simbolo dell’anelito alla riconciliazione e all’unità. Per questo, conflitti e divisioni che qui avvengono suscitano più sconcerto che in qualsiasi altra parte del mondo». Così si è espresso mons. Pierbattista Pizzaballa, patriarca dei cattolici latini di Gerusalemme, nella lectio magistralis dal titolo «Chiedete pace per Gerusalemme», tenuta lunedì 12 luglio nella basilica di Aquileia (Udine). L’intervento del patriarca ha preceduto una celebrazione, in occasione della solennità dei santi Ermagora vescovo e Fortunato diacono, martiri e fondatori della Chiesa di Aquileia, patroni dell’arcidiocesi e della regione.
«A Gerusalemme gli argomenti religiosi si intrecciano con le prospettive politiche di israeliani e palestinesi – ha spiegato –. Ciascuno vuole esprimere anche politicamente la propria sovranità sulla città, o almeno su una porzione di essa, specie nella parte dove si trovano i propri Luoghi santi, testimoni della propria storia di fede, che però è anche storia di popolo e identità nazionale.
L’affermazione della propria storia, tuttavia, espressa concretamente nel territorio da una parte, viene anche vista come una negazione per l’altra, la quale si sente defraudata a sua volta della propria storia e della propria identità nazionale. Un circolo vizioso dal quale è difficile uscire. Proprio per questo le tensioni politiche e religiose nella città sono sempre molto alte, le sensibilità delicate e fragili, le reazioni esagerate».
Luoghi di significati molteplici
Lo si è visto anche lo scorso maggio dove undici giorni di sangue tra Israele e Hamas – il partito militante palestinese stanziato nella Striscia di Gaza – hanno causato 248 vittime palestinesi a Gaza e 12 in Israele, quasi duemila feriti, e altre vittime palestinesi in Cisgiordania. Il 21 maggio è stato raggiunto il cessate il fuoco, con entrambe le fazioni che si sono dichiarate vincitrici. Facile prevedere che si tratti di una pace fragile. «Rende ancora più complicata la situazione il fatto che in alcuni Luoghi santi convergono le narrazioni religiose differenti o addirittura antitetiche, di ebrei, musulmani e, in alcuni casi, anche cristiani – ha continuato il patriarca –. Basti pensare alla Spianata del Tempio, o Haram Esh-Sharif. Due nomi differenti per lo stesso Luogo. Sacro per gli ebrei perché vi sorgeva l’antico tempio di Salomone e poi di Erode. Ma, allo stesso tempo, per i musulmani è il luogo più sacro dopo Mecca e Medina, sede di una delle più importanti e antiche moschee esistenti al mondo, e luogo della memoria della salita al cielo del profeta Muhammad. Pensiamo all’attuale Monte Sion, dove convivono tre narrazioni differenti: il cenotafio del re Davide, conosciuto come Tomba del re Davide per gli ebrei; il Cenacolo cristiano che conserva la memoria dell’Ultima cena e della lavanda dei piedi; il ricordo del profeta Dahood (il Re Davide) per i musulmani».
Da parte loro, i «cristiani, in quanto tali, hanno solamente una rivendicazione religiosa e spirituale sulla città, dove si trovano anche i più importanti Luoghi santi cristiani, testimoni degli eventi principali della vita di Gesù. Non spetta ai credenti in Cristo stabilire chi, come e a quali condizioni debba governare sulla città, ma è certamente nostro diritto e dovere esprimere un giudizio sul carattere che la città deve mantenere. Per l’alto valore simbolico che essa ricopre nella vita di miliardi di credenti nel mondo, Gerusalemme deve rimanere patrimonio universale, multiculturale, aperto e solidale».
Dietro i conflitti, la città dell’accoglienza
Mons. Pizzaballa non nasconde che «il quadro è desolante, che la politica va verso una sempre maggior polarizzazione e i conflitti riprenderanno», ma Gerusalemme resta «città dell’accoglienza e della tolleranza, dove un atto personale come la preghiera diventa anche atto pubblico, condivisibile e partecipato con gli altri. Ed è anche luogo di incontro e di dialogo».
Perché se è vero che «vi è il piano istituzionale, oggettivamente, problematico», è altrettanto vero che «vi è il piano della vita, dei semplici cittadini, che cercano di mostrare il loro amore e attaccamento alla Città santa, attraverso iniziative comuni o semplicemente attraverso relazioni di amicizia, che superano i rigidi confini delle appartenenze identitarie e religiose». Ecco allora lo Jerusalem Intercultural Center, dove israeliani, palestinesi, ebrei, musulmani e cristiani si occupano di migliorare la vita degli abitanti della città, a prescindere dalla loro fede. Ci sono le dodici scuole cristiane della città: diecimila studenti cristiani e musulmani. Ma ci sono anche le scuole bilingue della rete Hand-in-Hand, fondata insieme da un musulmano e un ebreo. Ci sono ebrei israeliani che leggono e commentano l’Antico Testamento insieme ai cristiani arabi. «Sono solo alcuni degli esempi di vita esistenti in questa città particolare – ha concluso il patriarca –. Sotto la superficie di contenziosi e divisioni, dei vari Statu quo, scorre un fiume di umanità bella, di uomini e donne che si mettono in gioco per dare espressione al desiderio radicato nel loro cuore di amore a Dio. Persone che desiderano incontrare il fratello e la sorella che vive accanto a loro e che rifiutano di credere sia un estraneo o addirittura un nemico. È lì che si fonda la nostra speranza».
Particolarmente suggestiva è stata la messa in basilica, celebrata in italiano, friulano, sloveno e tedesco, e accompagnata dai canti patriarchini (legati all’antico rito della Chiesa aquileiese – ndr). Con mons. Pizzaballa, hanno celebrato il vescovo di Udine, mons. Andrea Bruno Mazzocato, oltre a numerosi vescovi del Triveneto e ai rappresentanti di Austria e Slovenia. L’omelia si è incentrata sulla testimonianza cristiana. «La Chiesa deve avere testimoni. E la testimonianza diventa necessariamente annuncio. Quando ebrei o musulmani in Terra Santa mi chiedono di diventare cristiani, inevitabilmente pongo loro questa domanda: “Perché volete diventare cristiani? In questa terra è una condizione che vi renderà la vita ancora più complicata”. La risposta è sempre la stessa: “Non posso fare a meno di Gesù”».
Una mostra che lega Aquileia e Betlemme
Il giorno prima, domenica 11 alle 18, nella sede di Palazzo Meizlik della città che fu importante patriarcato dai primi secoli del cristianesimo fino alla metà del Settecento, mons. Pizzaballa ha anche inaugurato la mostra Da Aquileia a Betlemme: un mosaico di fede e bellezza (visitabile fino al 30 settembre 2021). Con lui erano presenti il rappresentante della Palestina presso l’Unesco, Mounir Anastas, e il sindaco e presidente della Fondazione Aquileia, Emanuele Zorino.
La mostra intende celebrare il filo – finora rimasto inesplorato – che lega Betlemme ad Aquileia, un legame di fede e bellezza che unisce due siti Patrimonio dell’Umanità, entrambi tappa e meta di pellegrinaggi. «Betlemme e Aquileia sono indissolubilmente legate perché Betlemme è il luogo dove è avvenuta l’Incarnazione, là Dio è entrato nella storia. Ad Aquileia il messaggio del Cristo Risorto si è diffuso in tutta l’Europa centro-orientale», ha spiegato don Raimondo Sinibaldi, presidente Fondazione Homo Viator-San Teobaldo di Vicenza.
L’accostamento tra i due siti – in particolare tra la basilica della Natività di Betlemme e la basilica di Aquileia – si deve all’interesse sorto per le recenti scoperte nella basilica della Natività, avvenute nel corso dei restauri avviati nel 2013.