Come in una macchina del tempo, riappaiono vecchie conoscenze, rimaste in ombra nell’ultimo ventennio afghano. I capi tribali ed etnici con i loro eserciti personali si schierano contro i talebani, come nel 2001.
Con l’abbandono delle forze occidentali, tornano ad imporsi in Afghanistan i «signori della guerra», i capi tribali ed etnici che, con i loro eserciti privati, nel 2001 aiutarono proprio la coalizione Nato guidata dagli Stati Uniti a rovesciare il regime dei talebani. Sono riapparsi con prepotenza sulla scena e stanno prendendo contatti tra di loro – secondo quanto riferisce l’Afghanistan Analysts Network – per combattere l’avanzata del nemico di sempre. Non lottano per la democrazia ma per difendere i loro territori, i loro feudi, la loro gente. Nessuno infatti più scommette nella capacità del governo di Ashraf Ghani di reggere l’onda d’urto degli «studenti islamici», una volta che, entro l’estate, gli ultimi militari statunitensi e della Nato se ne saranno andati, dopo un conflitto perso, e inutile, durato vent’anni.
Come in una macchina del tempo, riappaiono vecchie conoscenze, rimaste in ombra nell’ultimo ventennio e tuttavia mai scomparse. C’è il generale di etnia uzbeka, Abdul Rashid Dostun, famoso per la sua crudeltà e la sua efferatezza contro i nemici o i traditori interni. Nella sua base di Jowzjan ha mantenuto un esercito personale di migliaia di uomini ed ora ha lanciato una nuova fase di arruolamento.
C’è il governatore di Herat, il pashtun Mohammad Ismail Khan, uno dei più potenti signori della guerra negli anni Novanta, che sulla sua pagina Facebook posta parate di uomini in armi e assicura che potrà contare in poco tempo su una milizia di mezzo milione di combattenti. «Se il governo del presidente Ashraf Ghani non saprà difendere Herat, ci penseremo noi», scrive sulle reti sociali.
Anche il tagiko Ahmad Massud, il figlio ventenne del capo carismatico dell’Alleanza del Nord, Ahmad Shah Massud (ucciso nel 2001 poco prima dell’attacco alle Torri Gemelle e considerato un eroe nazionale), ha lanciato una “Seconda Resistenza” contro i talebani.
Il rientro in gioco dei capi tribali finisce per complicare le dinamiche, spezzettare il territorio e cancellare l’ultima patina di legittimità al governo di Kabul, sulla carta sostenuto da Stati Uniti e occidentali. Il sostegno è di facciata: la decisione dell’ex presidente statunitense Donald Trump, confermata dal successore Joe Biden, di ritirarsi dall’Afghanistan e di lasciare il compito di definire un futuro assetto del Paese a un inconcludente negoziato tra governo e talebani, si è trasformata di fatto in una guerra di tutti contro tutti, dove i più deboli appaiono proprio i soldati governativi, e che rischia di tracimare tra le etnie e i gruppi islamisti dei Paesi confinanti.
Il ritiro non riguarda solo i contingenti militari americani e della Nato, ma anche il personale di servizio, i contractors, le compagnie che gestivano infrastrutture, come ad esempio lo stesso aeroporto della capitale, Kabul.
I talebani, in origine studenti islamici provenienti dal vicino Pakistan per combattere il jihad contro gli invasori sovietici e poi divenuti padroni del Paese dal 1994 al 2001, grazie alle loro risorse militari e alle radici pashtun, puntano a riconquistare l’Afghanistan.
È abbastanza evidente che i signori della guerra e i grandi capi tribù afghani non possano accertarlo. Tra l’altro, stavolta anche l’etnia hazara (sciita) sta organizzando per la prima volta una propria milizia, dopo decenni di persecuzioni. Su Twitter è apparso l’hashtag #stophazaragenocide. Gli hazara sono storicamente considerati un’etnia di serie B e rappresentano le vittime predilette dei talebani e dell’Isis. Solo a Kabul, dal 2016 ci sono stati 23 attacchi terroristici contro di loro con un bilancio di 766 vittime. Uno degli ultimi attacchi, lo scorso 8 maggio, ha segnato la svolta: una bomba ha ucciso 69 studentesse hazara che stavano uscendo da un liceo. Da quel giorno la minoranza etnica sciita ha deciso di non delegare più la sua difesa alle forze governative. Dietro la milizia hazara qualcuno, in Occidente, ipotizza la longa manus dell’Iran.
In realtà la guida suprema iraniana, l’ayatollah Ali Khamenei sta riabilitando proprio in questi giorni i talebani: sono cambiati, non tagliano più le teste, ha affermato. Segni di fluidità nelle alleanze e negli schieramenti, mentre anche Cina, Russia, Pakistan non si limitano certo a guardare la bomba ad orologeria che presto scoppierà in prossimità delle loro frontiere.