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Violette, la tessitrice di pace

Manuela Borraccino
18 giugno 2021
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Palestinese cristiana israeliana, membro del Movimento ecumenico per la pace Sabeel e fondatrice dell’associazione culturale Nasijona, Violette Khoury è un’instancabile attivista per la riconciliazione, la giustizia, la verità.


«Perché abbiamo fondato Sabeel? Perché nessuno può diventare realmente sé stesso, il meglio che ciascuno di noi è chiamato a diventare, senza impegnarsi per la pace e la giustizia. Anch’io, quarant’anni fa, mi sarei potuta accontentare di avere una farmacia, un marito e una figlia. Ma non avendo vissuto altro che guerre da quando sono nata, c’era un grido dentro di me che mi spingeva ad impegnarmi per l’armonia, la libertà, la verità. Anche oggi, a 83 anni e dopo l’ennesima tragedia a Gaza, i miei sogni non sono cambiati: dobbiamo lavorare per la pace». Lo sguardo limpido, la voce spezzata dalla commozione nel suo italiano impeccabile: non si può ascoltare Violette Khoury ripercorrere la propria vita senza andare con il pensiero all’esortazione di san Paolo nella Lettera ai Romani: «Siate lieti nella speranza, costanti nella tribolazione, perseveranti nella preghiera» (12, 12).

Il passaporto palestinese di Golda Meir

Nata a Nazaret nel 1938 in una famiglia cristiana palestinese, Violette racconta di come i suoi primi ricordi siano quelli di aver condiviso giochi, scuole, esperienze con famiglie ebree e musulmane. «C’era la Seconda guerra mondiale, è vero, ma almeno in Galilea non ci impediva di fare una vita quasi normale e di partecipare alle festività familiari e religiose islamiche, ebraiche, druse, come alle nostre cristiane». Oggi racconta come la Nakba (la «Catastrofe» come i palestinesi ricordano il 14 maggio 1948) abbia distrutto non solo il sogno nazionale palestinese ma anche il tessuto sociale multiculturale della Palestina mandataria. «Tutti noi all’epoca, che fossimo cristiani o ebrei o musulmani o drusi, avevamo scritto Palestina sui passaporti: persino Golda Meir ricorda nelle sue memorie di essersi dichiarata palestinese secondo il suo passaporto. Nel ’48 di colpo è stato cancellato tutto: Palestina è divenuta una parola impronunciabile, da allora siamo stati chiamati arabi israeliani».

A Roma tre scoperte cruciali

Nel 1958 Violette si iscrivee alla facoltà di Farmacia di Gerusalemme ma, avvertendo di essere «straniera in patria», nel 1960 decide di proseguire gli studi in Italia pur non parlando una parola di italiano. «A Roma – riconosce oggi – ho scoperto tre aspetti della vita che mi hanno profondamente commosso e che ho portato nel cuore tutta la vita. Primo: ho capito che cos’è la pace, che cosa vuol dire vivere in pace e che senza la pace nessuno può diventare sé stesso; secondo: ho scoperto che cos’è la libertà, che cosa vuol dire vivere senza essere oppressi, esprimere pienamente i propri talenti, esercitare i propri diritti di essere umano; terzo: ho scoperto che cos’è la verità, vivere nella verità e non nelle manipolazioni». «Quegli anni a Roma – aggiunge – mi hanno anche fatto comprendere quale ricchezza di prospettive religiose e culturali avessi respirato senza saperlo nella mia terra, in Palestina divenuta Israele: avevo una grande nostalgia del confronto, che per noi era normale fin dall’infanzia, con lo sguardo ebraico e con lo sguardo islamico sulle diverse questioni, si trattasse della vita quotidiana come dell’alimentazione o di scelte di vita più sostanziali… A Roma c’era il punto di vista cristiano e basta. Mi mancava tutto il resto».

Razzismo e fanatismo nemici da battere

Da tutto questo è nato, alcuni anni dopo il ritorno, l’impegno nel movimento ecumenico per la pace e la giustizia tra i popoli Sabeel  (in arabo «La strada»), fondato dai cristiani palestinesi con l’obiettivo di promuovere l’unità dei cristiani e creare iniziative di pace. «Nei 47 anni in cui ho gestito con mio marito la nostra farmacia a Nazaret ho conosciuto migliaia di ebrei e di palestinesi della Galilea. Ho assistito alla giudaizzazione della Galilea con l’espropriazione delle terre, alla crescita dell’estremismo religioso fra i musulmani, ho visto l’emigrazione dei cristiani: anche mia figlia si è trasferita negli Stati Uniti. Ho capito che per noi cristiani impegnarsi per la giustizia e la pace è un obbligo e non una scelta. Questo credo sia tanto più vero in questa regione e come eredi della prima Chiesa del mondo, di fronte ai rischi che il razzismo, il fanatismo, il rifiuto dell’altro portino a una distruzione interna irreversibile. Ho imparato che, tanto più siamo circondati dal rifiuto della verità, dall’indottrinamento, dai pregiudizi, dai muri di separazione visibili e invisibili, tanto più dobbiamo cercare la pace basata sulla giustizia e sulla verità e non la pax romana basata sul potere».

Per una società pluralista e inclusiva

Dagli anni Novanta Violette Khoury ha vissuto sulla propria pelle i dilemmi della complessità delle diverse identità stratificate dei cristiani di Terra Santa: «Nei 28 anni nei quali ho diretto il centro Sabeel a Nazaret, ho cercato di realizzare la giustizia e la pace basate sugli insegnamenti di Gesù Cristo. Ma soprattutto di conoscere e far conoscere la verità: «Conoscerete la verità e la verità vi farà liberi» (Vangelo di Giovanni 8, 32), questa è la vocazione di noi cristiani palestinesi. Come trasmettere ai miei figli e nipoti la loro identità, affermare la storia di questa terra e di chi la abitava di fronte alla narrativa scolastica israeliana secondo la quale la Palestina nel 1948 era una terra deserta? Come portare i miei amici ebrei a guardare in faccia la verità, fuori dall’ipocrisia dei compromessi, e restare amici senza suscitare rancore? Oggi, di fronte alla gravità di quel che abbiamo vissuto e che ci ha fatto temere di ripiombare in una nuova Nakba, mi rendo conto dell’importanza di questo lavoro. Ho anche realizzato quanto sia necessario agire a livello sociale per una società solida e sana, una struttura sociale pluralista ma coerente per affrontare un fanatismo distruttivo».

Nasijona, con le donne di Nazaret

Da queste riflessioni a Nazaret è nata alcuni anni fa l’organizzazione Nasijona, (in arabo «Il nostro tessuto»), che attraverso la tutela del patrimonio culturale e dell’artigianato palestinese vuole fornire un luogo di aggregazione a donne cristiane, ebree e musulmane per «ritrovarsi e agire insieme lontano dai pregiudizi, e riscoprire legami umani e fraterni». «Posso dire che è stata una ispirazione benedetta da Dio e che le soddisfazioni hanno superato le nostre aspettative. Ringrazio le Suore di Nazaret, il patriarca (latino di Gerusalemme) Pierbattista Pizzaballa, i Missionari della Carità che hanno creduto in questo progetto e sostenuto il nostro lavoro. In questi quattro anni abbiamo raggiunto quasi 800 donne, più di 1.000 giovani adolescenti e bambini, tantissimi gruppi locali arabi ed ebrei e i pellegrini da tutte le parte del mondo in molti eventi culturali».

«Le mie gioie maggiori – chiosa Violette – sono state quelle di vedere re-instaurata l’armonia sociale in un momento in cui la società di Nazaret andava verso la disintegrazione totale; incoraggiare alcune iniziative di sviluppo economico con una maggioranza di donne nella città vecchia, ormai deserta; contribuire a salvare alcune forme di artigianato artistico che stavano scomparendo; dare la possibilità a centinaia di donne di uscire dalla solitudine, usare le loro competenze ed energie per produrre ed essere socialmente attive; far conoscere alle nuove generazioni le loro origini, le loro tradizioni e fare un ponte tra le generazioni». Last but not least, l’associazione ha organizzato campi estivi per 150 bambini e adolescenti ogni anno e promosso incontri di pellegrini e turisti «con la comunità locale e la vendita dei prodotti tradizionali fatti a mano a Nazaret».

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