Nella capitale austriaca sono in corso negoziati diplomatici per archiviare le sanzioni internazionali (occidentali) contro l'Iran. A pesare sono considerazioni economiche e geostrategiche. I contrastanti interessi in gioco.
Non sono solo le diplomazie mediorientali a seguire con attenzione i colloqui di Vienna che dovrebbero sancire la fine delle sanzioni internazionali contro l’Iran. L’esito della trattativa avrà ripercussioni su uno dei settori industriali più colpiti dalla pandemia, quello energetico, da cui dipendono le sorti economiche e anche la stabilità sociale e politica a medio termine di molti Paesi della regione, a cominciare dall’Arabia Saudita.
Le sanzioni decise unilateralmente dal presidente statunitense Donald Trump nel 2018, dopo l’abbandono dell’accordo sul nucleare, hanno compromesso le esportazioni iraniane di petrolio. Se dopo l’intesa siglata dal presidente Barack Obama, nel 2015, l’Iran era tornato a vendere fino a 2,9 milioni di barili al giorno (secondo gli analisti finanziari di S&P Platts Analytics), la stretta trumpiana ha fatto precipitare le esportazioni a poche centinaia di migliaia di barili al giorno, attraverso percorsi più o meno alla luce del sole, tentati per aggirare le sanzioni. Non sempre riuscendoci: sequestri di petroliere, battenti bandiere variegate ma con a bordo greggio iraniano, sono stati all’ordine del giorno in questi anni. Pirateria, per l’Iran. Rigorosa applicazione delle sanzioni per gli Stati Uniti e alcuni zelanti alleati, come la Gran Bretagna.
Dopo la vittoria di Joe Biden, tuttavia, le rotte del petrolio si sono fatte più affollate, come ha notato con stupore qualche giorno fa il quotidiano The New York Times, quasi incredulo che la Lex Americana – sia pure imposta nell’era di Trump – non sia rispettata da tutto il mondo. Secondo il sito World Oil, vi sarebbero ad esempio circa 20 milioni di barili di petrolio iraniano stoccato in Cina, pronto a essere venduto alle raffinerie.
La Cina, in effetti, è forse il Paese più interessato alla fine delle sanzioni e alla ripresa delle esportazioni di greggio dall’Iran, anche perché proprio l’approvvigionamento energetico di lungo periodo è uno dei capisaldi del maxi-accordo firmato di recente con Teheran. La Cina ha bisogno del petrolio, nonostante il suo percorso di transizione ecologica verso energie meno inquinanti, non foss’altro perché deve ridimensionare il prima possibile il massiccio uso di carbone.
Non tutti aspettano con gioia il ritorno del greggio iraniano sul mercato. Se l’Iran dovesse rientrare nei giochi troppo presto, o troppo rapidamente, gli altri concorrenti sarebbero costretti a fargli spazio riducendo le proprie quote. Il greggio iraniano, per le sue qualità, è un diretto rivale dei greggi estratti in Arabia Saudita, Iraq, Oman, e anche del fracking texano, il petrolio ricavato dagli scisti bituminosi che ha reso gli Stati Uniti indipendenti dalle importazioni.
Il ritorno di Teheran sui mercati allenterebbe i prezzi dell’energia, una prospettiva certo ben vista dalle economie industriali dell’Asia e dell’Occidente, ma ovviamente temuta dagli altri produttori, specialmente dai Paesi del Golfo le cui economie prosperano grazie agli introiti delle vendite di petrolio e gas.
Ad esserne particolarmente preoccupato è l’erede al trono saudita Mohammed bin Salman: già i negoziati di Vienna rappresentano una sconfessione del disegno (e dei suoi sogni) di mettere l’Iran ai margini; per di più essi porterebbero anche al ridimensionamento della strategia petrolifera di Riyadh, strumento-chiave per sostenere i progetti di sviluppo e di diversificazione dell’economia accarezzati dal principe. Il reingresso di Teheran sul mercato ridurrebbe la capacità dell’Arabia Saudita di governare l’offerta mondiale di greggio – già affievolita dall’esser finito il regno saudita al terzo posto tra i produttori, dopo Russia e Stati Uniti – e di conseguenza ne sminuirebbe ulteriormente il potere di incidere sulle dinamiche dell’economia internazionale.