La firma che l'arabo Mansour Abbas, leader del partito Ra’am, ha posto il 2 giugno accanto a quelle di altri capi politici israeliani in calce all’accordo per il nuovo governo è stata definita storica. A quali princìpi si ispira?
Sono giornate molto tese in Israele: il presidente della Knesset Yariv Levin – fedelissimo del primo ministro Benjamin Netanyahu – sta procrastinando il più possibile il voto di fiducia al nuovo governo Bennett-Lapid. Passaggio tutt’altro che scontato dal momento che – come Terrasanta.net spiegava già qui – ciascuno dei 61 deputati degli otto partiti tra loro diversissimi che formano la maggioranza alternativa a Netanyahu con un “no” sarebbe in grado di far saltare tutta l’operazione. Per questo motivo le pressioni del Likud, dei partiti religiosi e dei nazionalisti di Bezalel Smotrich e Itamar Ben Gvir sono in queste ore fortissime e decisamente sopra le righe. Al punto che quattro parlamentari su sei di Yamina (il partito di Bennett) sono sotto scorta e lo Shin Bet (il servizio di sicurezza interno di Israele) parla espressamente del timore di gesti violenti.
Proprio questo clima – però – pare stia compattando lo schieramento molto eterogeneo che sostiene il governo Bennett–Lapid. Per cui sono in crescita le probabilità che il nuovo esecutivo il 14 giugno (quando Levin avrà finito tutte le carte a sua disposizione per rinviare il voto) ottenga la fiducia in parlamento. E Netanyahu, dopo 12 anni ininterrotti, si ritrovi fuori dalla stanza dei bottoni della politica israeliana.
Se questa è la novità che balzerebbe inevitabilmente all’occhio, non meno significativo sarebbe l’altro dato ampiamente sottolineato in questi giorni: il fatto che per la prima volta dal 1977 un partito arabo sarebbe parte della maggioranza di governo in Israele. In realtà sarebbe meglio parlare di una prima assoluta: è vero, infatti, che dal 1948 al 1977 vi erano stati dei partiti arabi che avevano sostenuto i governi del Mapai, il partito di Ben Gurion di cui l’attuale partito laburista è l’erede. Ma si trattava di veri e propri partiti satellite, in un contesto che non è paragonabile a quello dei partiti arabo-israeliani di oggi.
Anche per questo la firma che Mansour Abbas, il leader del partito Ra’am, ha posto il 2 giugno accanto a quelle degli altri leader in calce all’accordo di governo è stata giustamente definita storica. E a sorprendere ancora di più è il fatto che a compiere questa scelta sia stato un partito di matrice islamista, cioè legato a quella tradizione politica che ha la sua radice nei Fratelli musulmani egiziani. Hadash – il partito comunista arabo che è il gruppo maggioritario di ciò che resta della Lista unita di Ayman Odeh – rimane fuori dal «governo del cambiamento», mentre a entrare in maggioranza sono gli islamisti. E contro di loro da Gaza si scaglia Hamas, che pure è un movimento ideologicamente legato alla stessa matrice.
Non è certamente facile decifrare questo ennesimo guazzabuglio. La spiegazione più facile potrebbe essere l’ambizione di Mansour Abbas – dentista di 47 anni, già leader una ventina d’anni fa degli studenti arabi all’Università ebraica di Gerusalemme – che evidentemente si sta giocando tutto intorno al suo pragmatismo: riuscire davvero a depotenziare la contestatissima legge Kaminitz (che prevede l’abbattimento di centinaia di case arabe abusive per il solo fatto che non vengono rilasciati permessi per costruire) o far riconoscere ufficialmente almeno alcune delle comunità beduine del deserto del Neghev sempre a rischio di sgombero, sarebbero evidentemente risultati concreti da sbandierare (probabilmente in aperta concorrenza a Odeh).
Al di là di questo, però, c’è anche un filo rosso «ideologico» interessante che in questa scelta ha avuto il suo peso. Negli anni Settanta il movimento islamista in Israele nacque con lo sheikh Abdullah Nimar Darwish. La sua era la classica ricetta dei Fratelli musulmani: l’islam è la soluzione. E anche l’attuazione agli inizi del movimento fu la solita: rivolta violenta all’occupazione, in forza della quale nel 1981 Darwish fini in carcere. Dopo la sua liberazione nel 1985, però, maturò una svolta opponendosi all’uso di metodi violenti e poi – progressivamente – anche aprendo all’impegno politico all’interno delle istituzioni israeliane. Un impegno, ovviamente, sempre con l’agenda tipica di un partito islamico. Su questo punto – alla fine degli anni Novanta – si consumò anche una spaccatura interna tra gli islamisti israeliani. Il movimento si divise in due tronconi: quello settentrionale, guidato dallo sheikh Raed Salah, proseguì nel boicottaggio del sistema politico israeliano (e nel 2015 è stato anche dichiarato fuorilegge, perché accusato da Netanyahu di legami con Hamas); quello meridionale, al contrario, ha seguito la linea di Darwish e da questa esperienza è nato ciò che oggi è il partito Ra’am. Lo sheikh è poi morto nel 2017, ma Mansour Abbas ne è in qualche modo l’erede politico che ora ha portato il suo messaggio alle estreme conseguenze con l’ingresso in una coalizione di governo.
La scelta di Ra’am non è stata ovviamente indolore: sta facendo molto discutere il mondo palestinese, sia quello che vive in Israele entro i confini del 1948 sia quello che sta nei Territori, a Ramallah e a Gaza. Molti criticano duramente Mansour Abbas, ben sapendo che un governo come quello nato intorno all’asse Bennett-Lapid non potrà certo portare a un vero cambiamento di posizioni su questioni come lo Stato palestinese o le situazioni incandescenti di Gerusalemme est. Ma il leader di Ra’am sa benissimo che la sua partita non si gioca lì, ma nella vita concreta delle comunità palestinesi in Galilea, a Jaffa o nel Neghev.
C’è però anche un ultimo aspetto su cui – nel medio periodo – sarà interessante osservare il partito di Mansour Abbas: il rapporto con i partiti religiosi ebraici. La loro opposizione al governo Bennett-Lapid, oggi, è legata molto più alla presenza in maggioranza delle “sinistre” (i partiti laici come Yesh Atid, i laburisti o il Meretz) che agli arabi. Del resto proprio con Ra’am – in questi anni alla Knesset – sia lo Shas sia Giudaismo nella Torah hanno fatto più volte fronte comune su temi legati alla difesa dei valori tradizionali. Bennett e Lapid oggi non fanno mistero di puntare – una volta in carica – ad allargare la maggioranza ad almeno uno di questi due partiti, per poter dare al loro governo una forza numerica più sicura. In un’operazione del genere Mansour Abbas potrebbe rivelarsi un alleato importante. E se andasse in porto, questa sarebbe davvero la fine politica del blocco su cui Netanyahu ha costruito tutta la sua carriera politica.
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Clicca qui per leggere un articolo di al Monitor sulle condizioni poste da Mansour Abbas per il sostegno al governo Bennett-Lapid
Clicca qui per leggere un articolo di Rami Younis sul blog +972 fortemente critico nei confronti di Mansour Abbas