Non ci ha mai abitato stabilmente ma l'ha visitata più volte nel corso della sua vita. L'intenso legame di Elie Wiesel con la Città Santa.
Lo scrittore e premio Nobel per la pace Elie Wiesel non visse mai in Terra Santa, ma la visitava spesso e quando gli chiesero quali fossero stati i momenti più felici della sua vita non accennò alla partenza dal campo di concentramento di Buchenwald, in cui era stato rinchiuso durante la Seconda guerra mondiale, ma alla nascita dello Stato d’Israele nel 1948 e alla Guerra dei sei giorni del giugno 1967; in particolare a Schichrur Yerushalayim, il giorno della liberazione di Gerusalemme.
La Città Santa occupava una posizione centrale nel suo cuore.
Alle pareti della stanza in cui scriveva, nel suo appartamento di New York, Wiesel aveva collocato tanti scaffali di libri e due sole immagini: una foto in bianco e nero della sua casa natale di Sighet, in Romania, e uno schizzo di Gerusalemme, per ricordare a sé stesso quali fossero i luoghi a cui apparteneva. E del suo legame con la Terra Santa parlò a fondo ne Il mendicante di Gerusalemme (Edizioni Terra Santa 2015), scritto dopo l’esperienza della Guerra dei sei giorni e pubblicato nell’ottobre 1968: «Gerusalemme: il volto visibile e segreto, il sangue e la linfa di ciò che ci fa vivere o rinunciare alla vita. La scintilla che si accende nell’oscurità, il sussurro che attraversa le grida d’allegria, di gioia. Per gli esiliati, una preghiera. Per gli altri, una promessa. Gerusalemme: città che miracolosamente trasforma qualunque uomo in pellegrino».
Della Guerra dei sei giorni e della liberazione di Gerusalemme Wiesel fu un osservatore privilegiato: temendo che per gli ebrei il conflitto si concludesse con una catastrofe che il mondo sarebbe rimasto a guardare impassibile, com’era successo con la Shoah, andò infatti in Israele nel periodo di tensione che precedette le ostilità e grazie a un amico che faceva parte dell’esercito poté vivere la guerra dall’interno. La vittoria delle forze israeliane fu rapidissima, sorprendente, tanto che, raccontava ancora lo scrittore ne Il mendicante di Gerusalemme, «non si sapeva più che giorno della settimana fosse, che mese, che secolo. A volte si aveva l’impressione di rivivere le prove e le vittorie della Bibbia: i nomi e le battaglie avevano un suono familiare. Altre volte ci si sentiva proiettati in avanti, in un futuro lontano, messianico».
L’emozione più profonda nasceva dal fatto che per la prima volta in quasi duemila anni la Città Santa era riunita sotto il dominio ebraico e che gli ebrei potevano tornare a visitare liberamente il Muro del pianto dopo l’occupazione giordana, iniziata nel 1948. Provarono allora un senso di incredulità assoluta, che Wiesel ben descrisse anche in un toccante articolo su Hadassah nel luglio 1967: «Mi dicono che questo il Muro. No, non ci credo. Non posso farlo, ho paura di crederci. Ovviamente dentro di me mi rendo conto che hanno ragione, che questo proprio il Muro – e quale ebreo non sa riconoscerlo all’istante! Eppure non riesco a credere di essere io, io che adesso mi ci trovo davanti, a fissarlo come in sogno, affrontandolo senza fiato come se fosse un essere vivente, onnipotente, onnisciente, padrone dei segreti dell’universo…».
Il Muro e la città rimasero per Wiesel i luoghi del cuore, forse perché Gerusalemme possiede qualcosa di unico: come osservò lo scrittore nel suo romanzo del 1968, «nessuno può visitarla e ripartire immutato».
(ha collaborato Alessandra Repossi)