(c.l./f.p.) – Negli ultimi giorni, a Gerusalemme, gli scontri tra manifestanti palestinesi e polizia israeliana hanno provocato centinaia di feriti. La violenza è esplosa principalmente intorno alla Porta di Damasco e alla Spianata delle moschee, durante le manifestazioni inscenate dopo la minaccia di sgombero di alcune famiglie palestinesi a Gerusalemme est, nel quartiere di Sheikh Jarrah, a beneficio dei coloni israeliani. L’annessione e l’occupazione di Gerusalemme Est dal 1967 sono contrarie al diritto internazionale, così come l’occupazione della Cisgiordania. L’Onu ha anche invitato Israele a porre fine a tutti gli sgomberi forzati dei palestinesi e ha avvertito che questi atti potrebbero essere considerati «crimini di guerra».
Lo stesso quartiere di Sheikh Jarrah è da qualche giorno teatro di scontri tra palestinesi e israeliani. All’origine c’è una battaglia legale che dura da diversi anni. L’organizzazione di coloni Nahalat Shimon sta cercando di rendere ebrea questa zona vicina alla città vecchia, a nord della Porta di Damasco. Tuttavia, il quartiere, che porta il nome di un medico di Saladino, si trova nella parte orientale di Gerusalemme.
I coloni affermano che le case palestinesi nel quartiere furono costruite prima della creazione dello Stato di Israele nel 1948 su un terreno acquistato da ebrei e associazioni ebraiche alla fine del XIX secolo, vicino alla tomba di Simone il Giusto, sommo sacerdote del III secolo a.C. Ma la guerra arabo-israeliana del 1948 portò il settore orientale della città santa sotto il controllo giordano, fino alla sua presa da parte di Israele con la guerra dei Sei giorni. Durante quel periodo, le famiglie palestinesi acquistarono case e terreni a Sheikh Jarrah dalle autorità giordane. A partire dal 1972, basandosi su una legge israeliana del 1970, le associazioni di coloni hanno avviato le loro prime rivendicazioni sulla terra. E oggi, quattro famiglie palestinesi sono minacciate di sfratto imminente.
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Il 10 maggio è uno dei giorni più «caldi» dell’anno in città: è Yom Yerushalayim, cioè il giorno di Gerusalemme, in cui si commemora la conquista israeliana della metà orientale nel 1967. Le celebrazioni includono una marcia con la bandiera, i cui partecipanti – per lo più ebrei nazionalisti – attraversano provocatoriamente il quartiere musulmano della città vecchia entrando dalla Porta di Damasco per raggiungere il Muro Occidentale. Le celebrazioni sono solitamente segnate dalla tensione, e quest’anno si assommano gli scontri per gli espropri e gli ultimi giorni di Ramadan. Le preoccupazioni sono al culmine.
Vista la situazione, la giustizia israeliana, su richiesta del Procuratore generale dello Stato, ha annunciato ieri il rinvio dell’udienza della Corte Suprema, inizialmente prevista per oggi, per pronunciarsi sulla sorte delle famiglie palestinesi. Una nuova data dell’udienza potrebbe essere annunciata entro un mese.
Intanto, la mattina del 10 maggio sulla Spianata delle moschee – terzo luogo santo dell’Islam, considerato dagli ebrei il Monte del Tempio – nuovi scontri hanno contrapposto fedeli palestinesi a poliziotti israeliani, lasciando sul terreno più di 300 feriti. Secondo le stime della polizia erano presenti circa ottomila palestinesi barricati con pietre, sbarre di ferro e molotov, che si preparavano per uno scontro nel caso in cui gli ebrei fossero entrati nel recinto sacro. Alla fine è entrata la polizia e ha affrontato i rivoltosi palestinesi.
L’onda lunga delle reazioni
Anche i leader religiosi cristiani, in Terra Santa come in Vaticano, hanno espresso pubblicamente la propria preoccupazione per le violenze in corso nella Città Santa.
«L’assalto alla moschea di Al-Aqsa è un crimine commesso dall’occupazione. I leader palestinesi stanno studiando tutte le opzioni per rispondere a questa atroce aggressione contro i luoghi santi e i cittadini», ha twittato un alto funzionario dell’Autorità palestinese, Hussein al-Sheikh, stretto consigliere del presidente Mahmoud Abbas. «Israele pagherà un prezzo pesante per la sua presa di controllo con la forza di Al-Aqsa», ha detto Sami Abu Zuhri, portavoce di Hamas.
Sette razzi sono stati lanciati da Gaza tra domenica sera e lunedì mattina, e palloni incendiari sono partiti dall’enclave palestinese verso il sud di Israele, innescando incendi boschivi. Oltre che a Gerusalemme, nel fine settimana si sono svolte manifestazioni a Ramallah e centinaia di arabi israeliani del nord di Israele hanno protestato anche a Nazaret e Haifa.
La monarchia giordana, custode dei Luoghi santi a Gerusalemme, attraverso la voce di re Abdallah II, ha condannato domenica «le violazioni israeliane (…) alla moschea di Al Aqsa / Al Haram Al Sharif, sottolineando la necessità di fermare queste pericolose provocazioni contro gli abitanti di Gerusalemme, che violano il diritto internazionale e i diritti umani». Ad Amman alcune centinaia di manifestanti hanno chiesto la chiusura dell’ambasciata israeliana e l’espulsione dell’ambasciatore.
Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, nel frattempo, ha difeso la gestione dell’ordine pubblico e l’uso della forza da parte della polizia contro i manifestanti palestinesi. Ha inoltre difeso lo sviluppo degli insediamenti ebraici nella parte orientale di Gerusalemme. Dichiarazioni rese mentre Israele e Autorità palestinese attraversano crisi politiche e istituzionali foriere di instabilità per tutta l’area.