Oggi, 26 maggio 2021, si svolgono in Siria le elezioni presidenziali. L'esito è scontato: riconferma del presidente "uscente" Assad. Il problema vero resta un altro: quanti passi indietro servono per voltar pagina.
Mentre in Siria si vota oggi per le elezioni presidenziali, azzardiamo un pronostico senza rischi: vince Bashar al-Assad, presidente in carica dal 2000. Questa volta, come nel 2014 e a differenza delle elezioni del 2000 e del 2007, se non altro non è il candidato unico. Non hanno alcuna possibilità i suoi due “rivali”, il ministro per gli Affari parlamentari Abdullah Salloum Abdullah o Mahmoud Ahmad Marie, sopravvissuti alla selezione della Corte Costituzionale che aveva eliminato altri 49 aspiranti.
Paesi come Francia, Regno Unito e Stati Uniti hanno già detto da tempo che non riconosceranno l’esito del voto. Il che è come non riconoscere l’acqua in un giorno di pioggia. Perché comunque Assad è lì. Era lì nel 2011, e continua a fare il presidente della Siria dopo dieci anni di una guerra in cui tutte le parti, la sua come quelle sponsorizzate dall’Occidente, si sono permesse atrocità senza nome e senza fine. Qualche idea in proposito?
A quanto pare no. Ora il 70 per cento della Siria è tornato sotto il controllo di Damasco, le prospettive di un intervento armato sono diventate fumo per la presenza in armi della Russia e dell’Iran, oltre che per i complicati rapporti di amore e odio tra Russia e Turchia e Turchia e Occidente, e lentamente ma costantemente la Siria di Assad rientra nei giochi della diplomazia mediorientale, tanto che si parla di una riammissione nella Lega Araba. Di fronte a tutto questo sembra che l’approccio alla “questione siriana” sia condannato a percorrere due uniche strade. La prima è quella della retorica, del libro dei sogni: immaginare per la Siria un futuro tipo Svizzera o Lussemburgo e stigmatizzare la mancanza di democrazia, la corruzione e l’inefficienza del regime. Tutto vero ma anche tutto inutile, soprattutto quando arriva da governi che intanto riempiono di armi e quattrini i regimi altrettanto autocratici, corrotti e inefficienti di altre parti del Medio Oriente.
La seconda è quella delle sanzioni economiche. Altra farsa, che diventa però una tragedia nella tragedia. Quest’anno il raccolto del grano, in Siria, è stato inferiore al milione di tonnellate. Il raccolto del 2010, l’ultimo prima della guerra, di milioni di tonnellate ne valeva quattro. Davvero qualcuno crede che, grazie alle sanzioni, alla famiglia Assad manchi il pane? O non succede piuttosto che manchi ai siriani qualunque? Qualcuno davvero crede che grazie alle sanzioni i 6,6 milioni di siriani rifugiati all’estero e i 6,2 milioni di siriani sfollati all’interno del Paese vivranno meglio? O che, sempre grazie all’embargo, la corruzione di Stato diventerà virtù collettiva?
C’è chi ancora pensa che affamare i siriani servirà a sollevarli contro Assad. Vuol dire che sa poco della Siria. In Iraq, Saddam Hussein era il garante della prevalenza di un gruppo (i musulmani sunniti) su tutti gli altri. In Siria, al contrario, Assad, al “modico prezzo” del privilegio per i suoi alawiti, è il garante dell’equilibrio tra i gruppi. Per questo, autocrate o no, è sostenuto dalle minoranze e gode di un consenso reale, che ovviamente non avvicina il 90 per cento che di solito ottiene alle elezioni ma che tuttavia esiste.
Se avessimo davvero a cuore le condizioni dei siriani, che di questo passo continueranno a soffrire le pene dell’inferno, se davvero volessimo la ricostruzione e la rinascita del Paese, dovremmo capire che nessuno, ormai, può vincere in Siria. Che tutti, Usa compresi, devono fare un passo indietro. Anche Assad. Anzi: per primo Assad. Ma per uscire dal vicolo cieco c’è una sola strada vera: parlare seriamente con Russia e Turchia. La prima non vuole che la Siria, dove ha interessi strategici importanti, diventi un protettorato americano. Per trattare con Assad un eventuale cambio di regime pacifico bisogna passare da Mosca. La seconda non vuole che l’area curda diventi un fattore di instabilità per i suoi confini Sud. Può essere una forca caudina per la Casa Bianca o per l’Eliseo. Ma se non si passa da lì, non si arriva da nessuna parte.