I film, si sa, spesso giungono al cuore degli spettatori molto più che i telegiornali. Il loro linguaggio ha quel surplus di umanità che un notiziario non trova. È il caso di The Present, della regista anglo-palestinese Farah Nabulsi.
La fiction, se ben fatta, può raccontare la realtà meglio di mille notiziari televisivi. È ciò che si comprende pienamente in questi giorni, imbattendosi nel cortometraggio The present, uscito a marzo su Netflix e diretto dalla regista britannico-palestinese Farah Nabulsi, già vincitrice di un premio Bafta. Il corto spiega con evidenza le ragioni ataviche del conflitto israelo-palestinese, partendo da un episodio minimale e sviluppandolo nel contesto della quotidianità, che può spiegare la grande Storia quando diventa violenta e sembra incomprensibile.
Il film racconta un giorno di ordinaria umiliazione per Yusef, interpretato da Saleh Bakri, e per sua figlia Yasmine, mentre cercano di acquistare un nuovo frigorifero per l’anniversario di matrimonio di Yusef. Durante il breve viaggio da casa al negozio, i due devono passare attraverso uno delle centinaia di posti di blocco che segnano il paesaggio palestinese occupato, insieme a barriere stradali, cancelli e trincee. Non appena escono da casa al mattino, padre e figlia devono fare la fila attraverso un passaggio stipato per poter attraversare un checkpoint con altri palestinesi che vanno al lavoro, mentre le auto che superano il cancello riservato agli israeliani accelerano alla loro sinistra.
La scena è particolarmente potente, poiché è girata in un luogo reale e senza attori, catturando la realtà quotidiana di migliaia di palestinesi che vivono sotto il controllo militare israeliano. La giornata non inizia bene per Yusef e Yasmine, poiché un soldato israeliano nega loro il passaggio senza motivo e viene detto a Yusef di aspettare in una cella per diverse ore mentre i soldati sequestrano i suoi effetti personali durante un ingiustificato, lungo e umiliante controllo di sicurezza. Infine, padre e figlia passano ma dovranno tornare indietro accedendo dallo stesso checkpoint.
Ed è qui, verso la fine del film, che Yusef è chiaramente logorato dalle restrizioni dei controlli israeliani. Infastidito anche dal suo mal di schiena cronico, è sul punto di mettersi nei guai, perché perde la calma e affronta i soldati che non vorrebbero far passare il suo nuovo frigorifero dal posto di blocco. Proprio mentre la situazione rischia di degenerare, con i soldati israeliani che puntano le armi contro Yusuf, l’uomo viene salvato da sua figlia Yasmine, che sfida gli ufficiali passando attraverso i cancelli per il passaggio dei cittadini israeliani. Entrambi alla fine riescono infine a tornare a casa.
In sostanza, la più ordinaria delle attività, ossia andare a fare la spesa e comprare un nuovo frigorifero, diventa una missione impossibile per Yusef e per la sua piccola Yasmine, e quello che avrebbe dovuto essere un momento di spensieratezza tra un padre e una figlia è annichilito dalle regole di questa forma di apartheid. La semplicità della trama nonché l’umanità dei personaggi sono funzionali al messaggio del film in modo molto efficace, poiché lo spettatore è in grado di immedesimarsi e identificarsi con la condizione di Yusuf e con il suo trattamento da parte dei soldati.
Da una parte il film legge l’occupazione israeliana come un sistema di controllo basato sulla disumanizzazione dei palestinesi e sul razzismo, dall’altra dà spazio a un’introspezione delle ragioni che i militari israeliani portano con sé, nella convinzione che ogni palestinese che passa attraverso il checkpoint sia una potenziale minaccia per se stessi e per la nazione. E questa ipotesi moltiplica inevitabilmente le tensioni.
Il film è anche punteggiato da piccoli atti di gentilezza e solidarietà tra palestinesi, omaggio alla capacità, molto spiccata nei palestinesi, di mantenere forti legami di solidarietà come forma cruciale di resistenza, specie nei piccoli villaggi della Cirgiordania e nella vita quotidiana, con reti di mutuo aiuto e sostegno per alimentare il coraggio e conservare la dignità. In questo senso, The Present non è solo un film sulla corrosività dell’occupazione, ma anche sul potere dell’amore e della solidarietà contro l’ingiustizia. E la sua universalità trascende il contingente che racconta e che è una storia di odio e convivenza già lunga ottant’anni.