Sono passati tre mesi dal pellegrinaggio di pace di papa Francesco in Iraq (compiuto dal 5 all’8 marzo scorso). Nella chiesa dell’Immacolata Concezione di Qaraqosh, città simbolo della persecuzione contro i cristiani, Bergoglio aveva invitato i presenti a fare memoria dell’eredità spirituale dei padri, ma soprattutto a «ricostruire e ricominciare».
Non a caso l’appello del Papa era stato lanciato da Qaraqosh, nel nord dell’Iraq, dove la stragrande maggioranza dei cristiani è stata cacciata dalle proprie case dagli estremisti del sedicente Stato islamico (Isis) a partire dall’agosto 2014. La sfida che oggi i cristiani che accettano di ritornare si trovano davanti è duplice: ricostruire case, attività commerciali ed economiche, restaurare le chiese danneggiate o distrutte durante l’occupazione dell’Isis… Ma soprattutto, costruire la fiducia nel futuro.
La visita di papa Francesco, a questo proposito, sembra essere stata una vera iniezione di speranza, alimentando un volano di fiducia che cresce di giorno in giorno. Ne è convinto fratel Wissam Karo, fondatore dei Fratelli di Gesù Redentore, una comunità monastica siro-cattolica che ha sede proprio a Qaraqosh. Un’esperienza aperta a cristiani e musulmani e incentrata su dialogo e accoglienza.
A fratel Wissam chiediamo di darci conto delle speranze suscitate dal viaggio di Bergoglio. «Da decenni – ci dice – sognavamo e attendevamo la visita del Pontefice, da quando san Giovanni Paolo II aveva manifestato il desiderio di farsi pellegrino nella terra di Abramo. Quando la visita di papa Francesco è stata annunciata, ci siamo detti che non potevamo sprecare l’occasione: abbiamo pensato ai giovani, a come prepararli a un evento tanto importante e soprattutto al come fare in modo che l’insegnamento del Papa diventasse parte della loro vita. Alle attività proposte abbiamo avuto una risposta eccezionale: 800 giovani tra i 15 e i 30 anni hanno seguito, per oltre un mese, incontri di formazione e di preparazione».
Meno ombre dopo Francesco
Il tema della fiducia è oggi centrale nella comunità cristiana irachena. «Prima della visita del Santo Padre eravamo ancora titubanti. Ma ora queste ombre sono state spazzate via. Abbiamo sentito anche il sostegno della comunità musulmana, l’impegno a lavorare per una nuova cittadinanza. Credo che le famiglie cristiane che hanno lasciato le loro case possano serenamente tornare. Il problema oggi da risolvere non è tanto quello della fiducia, ma delle condizioni economiche del Paese. Per tornare a una vita normale serve il lavoro, che in realtà manca».
In varie aree del Paese si registrano ancora episodi di violenza, e attentati. Anche se il peso dello Stato islamico è ormai marginale, spiega il religioso, restano attive varie cellule terroristiche. Nei mesi di aprile e di maggio sono stati lanciati razzi contro strutture che ospitano forze statunitensi da parte di non meglio identificate organizzazioni che lottano contro l’occupazione Usa dell’Iraq. E non smette di preoccupare la situazione di fragilità e debolezza politica nelle quali versa il governo di Mustafa al-Khadimi, accusato dalla popolazione di incuria e corruzione.
Sta di fatto, però, che l’Iraq sembra guardare con maggior speranza al domani. E dalla vicina Giordania, come da Europa Australia e Americhe, sono decine le famiglie intenzionate a rientrare nel Paese. Secondo dati aggiornati al 12 gennaio 2021, oltre il 45 per cento delle famiglie originariamente residenti nella Piana di Ninive e scacciate dalla violenza islamista, vi avrebbe addirittura già fatto ritorno, anche grazie al grande sforzo di solidarietà dalla comunità cattolica internazionale.
«La diaspora cristiana è stata imponente, drammatica. Oggi noi cristiani d’Iraq siamo forse 250mila rispetto al milione e mezzo che eravamo», dice ancora fratel Wissam. «Ma un bel numero di famiglie è ancora in procinto di tornare. E noi le stiamo aspettando a braccia aperte per ricominciare insieme».