Più presto che tardi la nuova fase di guerra tra Israele e Gaza finirà. E a margine delle macerie si imporrà una domanda: adesso cosa ne sarà delle relazioni tra cittadini arabi ed ebrei all'interno di Israele?
A una settimana ormai dalla sua esplosione, la nuova sanguinosissima guerra di Gaza attende la sua fine che è già scritta fin dall’inizio: che sia oggi, domani oppure tra qualche giorno, arriverà il cessate il fuoco di cui si parla e che tanti innocenti attendono con il cuore in gola dentro e fuori dalla Striscia. Così ci accorgeremo che – ancora una volta, al netto della propaganda – intorno a Gaza non sarà cambiato proprio nulla. Hamas sarà ancora al suo posto e canterà vittoria per aver difeso l’onore di Gerusalemme. La leadership politico-militare di Israele sosterrà di aver «ristabilito la deterrenza», infliggendo «un duro colpo» al movimento islamista. Ma fuori dalle narrazioni di entrambi, resterà solo la catena di nuovi lutti, i bambini da piangere, come ricordava ieri a mezzogiorno papa Francesco nel suo appello da piazza San Pietro.
C’è però una domanda che – quando finalmente i missili e i raid si saranno fermati – ci si porrà soprattutto davanti: adesso che cosa accadrà all’interno di Israele tra arabi ed ebrei? Le violenze avvenute a Lod e in altre città dove le due comunità vivono fianco a fianco saranno un’eredità pesante. La vicenda di Sheikh Jarrah – che non a caso affonda le sue radici nelle ferite del 1948 a Gerusalemme – ha fatto da detonatore a tante cariche e tensioni accumulate in questi ultimi anni. Alla fine è la campagna anti-araba portata avanti costantemente dalla destra nazionalista ebraica, con la bandiera dell’inutile e provocatoria legge approvata nel 2018 dalla Knesset su «Israele Stato-nazione degli ebrei», ad aver presentato il conto a Lod.
E allora la domanda vera che questa guerra lascerà in eredità è: chi sono davvero oggi quel 20 per cento di cittadini israeliani che non sono ebrei ma arabi? La stessa definizione di arabi-israeliani in queste ore è finita nel mirino: c’è chi sostiene che chiamarli così sia una negazione della loro identità palestinese. Forse sarà anche vero; però a me viene da rispondere: stiamo attenti a non schiacciarli troppo in fretta sulle contraddizioni che attraversano da troppo tempo Gaza e Ramallah.
L’unico fatto nuovo degli ultimi anni a Gerusalemme è stato proprio il profilo politico inedito acquisito dai partiti arabo-israeliani. Mentre la società palestinese nei Territori e nella Striscia rimaneva prigioniera di vecchie contrapposizioni e clientele, alla Knesset emergevano leader arabi nuovi, che vogliono far valere i propri voti per dare battaglia rispetto ai tanti aspetti per cui in Israele essere arabo significa avere una cittadinanza di serie B. Il manifesto forse più chiaro di tutto questo è stato il discorso che Mansour Abbas – il leader di Ra’am, il piccolo partito di matrice islamista divenuto qualche settimana fa l’ago della bilancia nel parlamento israeliano spaccato in due – ha tenuto a reti unificate sulle principali emittenti israeliane il primo aprile: «Cerco una coesistenza basata sul rispetto reciproco e su una vera uguaglianza – ha detto –. Abbiamo la possibilità di iniziare un cambiamento e di creare una società civile più grande rispetto alle sue componenti».
Se dentro Israele un percorso politico di questo tipo nascesse davvero sarebbe una novità che non potrebbe non avere riflessi anche in Palestina. Ma è in Israele, oggi, non a Gaza o a Ramallah che si sta giocando questa partita. E le provocazioni degli squadristi del Lehava – il braccio violento dei nazionalisti religiosi ebrei, che la stessa polizia israeliana racconta aver trovato sempre tra i piedi in questi giorni nelle città dove scoppiavano i disordini con gli arabi – oggi mirano a far rientrare questa possibilità ributtandola nel calderone dell’intifada. A ricacciare gli arabi israeliani nell’angolo delle contrapposizioni coi palestinesi.
Probabilmente ci sono riusciti. Anche se in queste ore sono successe due cose interessanti: l’islamista Mansour Abbas – il politico israeliano che per matrice ideologica in teoria dovrebbe essere il più vicino a Hamas – è andato a Lod a fare visita alla sinagoga data alle fiamme dalla rabbia degli arabi, per esprimere pubblicamente la sua condanna verso questo gesto. Contemporaneamente The Jerusalem Post – il quotidiano israeliano che in teoria sarebbe più vicino alla destra – ha pubblicato un editoriale per dire che oggi più che mai a Israele servirebbe un governo di unità nazionale realmente «di cambiamento», che abbia dentro anche i partiti arabi. Piccoli segnali di chi – anche in mezzo a raid e missili – spera in un «giorno dopo» diverso. Per non ritrovarci presto di nuovo a piangere e dividerci sulle stesse macerie.
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Leggi qui la notizia sulla visita di Mansour Abbas alla sinagoga devastata a Lod
Leggi qui il suo discorso pronunciato in diretta sulle tivù israeliane il primo aprile 2021
Leggi qui l’editoriale del Jerusalem Post