Il sabotaggio del centro nucleare di Natanz, avvenuto l’11 aprile e di cui il Mossad israeliano è il primo sospettato, mostra tutta la debolezza dei sistemi di sicurezza dell’Iran.
Un anno fa andava in onda su Apple TV una serie televisiva israeliana, Teheran, che prometteva di raccontare l’Iran senza pregiudizi e stereotipi. Il risultato era stato deludente e pasticciato, a detta di chi nella Repubblica islamica ci vive ed è anche critico verso il regime teocratico. Su un punto però gli autori israeliani avevano fatto centro: l’onnipresenza e la libertà di movimento degli agenti del Mossad in Iran, tanto enfatizzate nella fiction quanto tangibili nella realtà.
I servizi segreti iraniani, un tempo presentati come il fiore all’occhiello delle Guardie rivoluzionarie khomeiniste, sono ormai diventati un colabrodo. La sicurezza nazionale è bucata in modo sempre più frequente e micidiale da attacchi israeliani che approfittano della vulnerabilità del nemico, oltre che dell’impunità accordata a livello internazionale allo Stato di Israele. L’ordigno introdotto e fatto esplodere domenica 11 aprile nella centrale nucleare di Natanz, sotto la regia dichiarata del Mossad, aveva l’obiettivo di ostacolare, se non far deragliare, i colloqui avviati a Vienna per far ritornare gli Stati Uniti all’accordo sul nucleare del 2015 con l’Iran.
Secondo il Ministero degli Esteri iraniano, che ha scritto una lettera di denuncia all’Aiea (l’Agenzia internazionale per l’energia atomica) in cui si parla di «crimine nucleare di guerra», si è però anche sfiorata la catastrofe umanitaria e ambientale, con una possibile fuoriuscita di materiale radioattivo.
Nonostante la gravità dell’attacco, gli iraniani hanno mantenuto il loro pragmatismo. Come già avvenuto in passato, hanno fatto la voce grossa e promesso vendetta. La risposta è stata però politica, con l’annuncio di un immediato arricchimento dell’uranio fino al 60 per cento, cosa che rappresenta un balzo verso la soglia del 90 per cento, necessaria per costruire un’arma nucleare. Teheran non vuole perdere l’opportunità, apertasi con la presidenza di Joe Biden, di riallacciare il dialogo con gli Stati Uniti (usciti unilateralmente dall’accordo sotto l’amministrazione Trump nel 2018), condizione necessaria per scrollarsi di dosso sanzioni economiche soffocanti e riaprire i commerci e la cooperazione industriale con l’Occidente. Tant’è vero che i colloqui di Vienna proseguono regolarmente e il rappresentante iraniano è estremamente attivo negli incontri. «I nostri nemici – ha detto il presidente iraniano Hassan Rouhani – volevano mandarci a mani vuote alle trattative, ma noi ci presentiamo con le mani ancora più piene».
Il problema della fragilità della difesa e dei servizi segreti iraniani è però all’ordine del giorno. In evidente difficoltà si trovano le Guardie rivoluzionarie, la cui unità di Intelligence ha la responsabilità per la difesa dei siti e per la protezione degli scienziati nucleari. Solo nell’ultimo anno, non si contano i sabotaggi e le azioni di guerra sotterranea attribuiti agli israeliani: dalle esplosioni nell’estate scorsa in centrali nucleari, luoghi militari e paramilitari iraniani ai bombardamenti di navi iraniane (seguiti, questi, con rappresaglie di Teheran su navi israeliane) fino all’omicidio mirato, nel dicembre 2020, del capo del programma nucleare iraniano, Mohsen Fakhrizadeh, un atto paragonato, per la sua gravità, all’uccisione a Baghdad del generale iraniano Qasem Soleimani, ordinata ad inizio 2020 dall’allora presidente statunitense Donald Trump.
Un comitato del Majlis, il Parlamento nazionale, indagherà – si legge sui giornali – sulle «ovvie infiltrazioni nella sicurezza iraniana». Il vicepresidente della Repubblica Eshaq Jahangiri ha chiamato in causa l’organismo dei pasdaran, per i «danni catastrofici alla reputazione, alla sicurezza e all’economia dell’Iran». «L’attacco di Natanz è stato un tradimento con o senza infiltrazioni di agenti stranieri», ha scritto su Twitter uno dei più noti commentatori iraniani, Seved Peyman Taheri. «Rattoppate i buchi della vostra incompetenza», ha intimato.
Dall’attacco di domenica scorsa a Natanz, gli Stati Uniti si sono dissociati senza però condannare apertamente l’azione di Israele né chiarire se fossero stati preavvertiti. Da parte sua, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, che non ha mai nascosto la sua opposizione a un accordo tra Washington e Teheran, ha ribadito che lo Stato ebraico impedirà alla Repubblica islamica di entrare in possesso di un’arma atomica. Il che si tradurrà con ogni probabilità nel proseguimento di azioni di guerra-ombra contro un Iran rivelatosi incapace di difendersi nel suo territorio. Gli attacchi ripetuti servono certamente a indebolire il nemico regionale e a ricordare agli Stati Uniti e agli europei che gli interessi israeliani non possono essere messi in secondo piano. Tuttavia – scrivono autorevoli testate come il New York Times e l’Economist – Netanyahu si muove anche in un’ottica cinicamente interna, sperando di coagulare dietro di sé, con un’ennesima crisi di politica estera, una maggioranza governativa che al momento manca alla Knesset dopo le ultime elezioni del 23 marzo scorso.