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Siriani in Turchia, un «secondo popolo»

Terrasanta.net
5 aprile 2021
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Siriani in Turchia, un «secondo popolo»
Profughi siriani a Gaziantep. Nella città meridionale della Turchia sono quasi mezzo milione. (foto Dpa)

Oltre 3,5 milioni di siriani vivono oggi in Turchia. Dopo un decennio di guerre, alla maggioranza di loro sono impedite le vie di accesso all’Europa e del ritorno in patria. Ma anche la strada dell'integrazione è irta di ostacoli.


Le Nazioni Unite hanno convocato il 30 marzo una conferenza internazionale per cercare di raccogliere 10 miliardi di dollari da destinare alla ricostruzione della Siria e ad alleviare la miseria di milioni di siriani rimasti in patria o fuggiti all’estero. Le vittime accertate sono 388 mila, ma un decennio di guerre nel Paese ha provocato la fuga anche di un numero enorme di persone che corrisponde a un quarto di tutti i rifugiati nel mondo. «La memoria dei quattrocentomila morti in quel luogo cresce? – ha scritto provocatoriamente Domenico Quirico su La Stampa il 15 marzo –. No. Confessiamolo: si rattrappisce». E se poca attenzione è dedicata alla Siria, ancora meno è posta sui siriani profughi all’estero.

Il Paese che oggi ospita la quota maggiore di siriani fuggiti è la Turchia: il 90 per cento dei 4 milioni di rifugiati presenti nel Paese. Il numero complessivo è cresciuto rapidamente fra il 2013 e il 2017 e da allora si è stabilizzato, con pochi nuovi arrivi e rimpatri. In dieci province del Paese i siriani sono più di centomila: mezzo milione a Istanbul (una presenza record, ma disseminata nella grande metropoli), 450mila a Gaziantep, oltre 400mila nelle province di Sanliurfa e Hatay (Antiochia), ecc. Complessivamente 1,5 milioni si trovano nelle province confinanti con la Siria nord-occidentale.

Il termine «rifugiato» non è del tutto corretto in quel contesto: la Turchia non prevede un riconoscimento legale ai siriani in base alla Convenzione del 1951 sui rifugiati, ma offre loro un regime di protezione temporanea. Tuttavia, il governo non ha trattato questa presenza solo come emergenza, ma approntando misure di più lungo periodo e consentendo a molti siriani di accedere a scuole, servizi sanitari e mercato del lavoro. Oltre centomila di loro hanno ottenuto la cittadinanza turca.

Ciò è stato possibile anche grazie al noto e controverso accordo fra Ankara e l’Unione europea del 2016, in base al quale i Paesi europei hanno iniziato a versare fondi – per un totale previsto di 6 miliardi di euro – in cambio del blocco dei flussi di profughi verso la Grecia. Un compromesso che ha sollevato critiche, per la «delega» al governo (sempre più autoritario) della Turchia perché gestisse i flussi migratori. L’accordo ha raggiunto il suo scopo e la Turchia oggi ospita il triplo dei siriani rispetto a tutta la Ue.

Lavoro e scuola, l’integrazione difficile

Una presenza così massiccia ha ovviamente un impatto sociale ed economico del quale si è occupato anche l’Oil, l’agenzia dell’Onu che si affronta le questioni del lavoro. Oltre due milioni di siriani in Turchia possono in teoria lavorare, ma solo la metà è attivo e perlopiù in impieghi informali e poco remunerati. Un terzo di loro lavoro nelle industrie tessili, il 17 per cento nel piccolo commercio, il 13 nell’edilizia. Più limitato il coinvolgimento in agricoltura (8 per cento). La barriera linguistica tra l’arabo e il turco è il maggiore ostacolo, nel mercato del lavoro come nei servizi destinati a donne e bambini, che sono la maggior parte dei profughi. Analisi condotte dall’Oil dimostrano che i siriani, avendo poco potere contrattuale, hanno orari di lavoro di più lunghi, salari più bassi e, nel caso delle donne, le condizioni sono peggiori.

I rifugiati sono sparsi in tutto il Paese, in città, zone periurbane e rurali. La pandemia non ha fatto che peggiorare le situazioni difficili, ostacolando la coesione sociale. Una città come Gaziantep, grande come Milano, distante solo un centinaio di chilometri da Aleppo, è stata profondamente trasformata dalla comunità siriana. Tuttavia, rispetto alle difficoltà di sopravvivenza di tanti profughi segregati nei campi in Libano o in Giordania, l’insediamento a Gaziantep ha mostrato risposte improntate a un certo pragmatismo.

La Turchia non è stata la prima scelta

«Volevo in ogni modo raggiungere l’Europa. Dopo un anno in Turchia non riuscivo a lavorare – ha raccontato a The Guardian un grafico di Damasco di 32 anni, fuggito in Turchia nel 2013 –. Ma l’imbarcazione è affondata tre volte e dopo tanti fallimenti ho rinunciato, ho pensato che sarei morto se avessi continuato a provare». A Gaziantep questo giovane è poi riuscito a inserirsi, imparando la lingua e trovando lavoro. Oggi è sposato con una turca. Il reportage del quotidiano britannico racconta luci e ombre dell’integrazione e la delusione per le politiche europee che si è diffusa tra i siriani, dato che la Turchia per molti non è stata la prima scelta di destinazione.

650 mila bambini e ragazzi sono iscritti alle scuole pubbliche. Un programma chiamato Pictes, lanciato dal ministero turco dell’Istruzione nel 2016 nelle province dove i siriani sono più numerosi, ha l’obiettivo di insegnare la lingua e favorire l’inserimento. Ma il processo non è affatto semplice se, come risulta da un’indagine dell’Unicef, solo quattro minori su dieci frequentano le lezioni. Tanti sono i percorsi personali difficili, soprattutto per i bambini che hanno subito i traumi del conflitto, sradicamento, fuga e barriere di accesso.

Per supplire a queste carenze, il ministero degli Affari religiosi turco, espressione dell’islam sunnita maggioritario nel Paese (e tra i siriani), ha istituito centri temporanei per l’istruzione. Il sistema scolastico è carente nel dare sostegno psicosociale ai piccoli che hanno più sofferto. Gli insegnanti faticano a interagire con le famiglie degli studenti. Il rischio di sentirsi isolati ed esclusi è costante.

L’Alto commissariato dell’Onu per i rifugiati (Acnur) continua a coordinare i fondi per i programmi di assistenza, 350 milioni di dollari stanziati per il 2021, ma non bastano. E mentre la Siria non mostra alcun segno di ripresa, nel Paese ponte fra Europa e Medio Oriente, un «secondo popolo» vive in esilio. (f.p.)

 

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