«Vedrai, è un grande»: a parlare è Georges Safar, guida di Terra Santa, lui stesso di rito siro-cattolico. L’opinione di Georges conferma quello che si sente dire a Gerusalemme: la comunità siro-cattolica è lieta di accogliere un giovane vescovo di cui hanno potuto apprezzare il dinamismo.
Monsignor Semaan, infatti, pur essendo libanese, non è estraneo alla comunità che gli è stata affidata. Racconta di sé: «Sono di Beirut e ho vissuto tutta la mia vita in Libano. Dopo i miei studi in filosofia e teologia all’Università dello Spirito Santo di Kaslik, sono stato ordinato sacerdote nel 2006 dal nostro patriarca Mar Ignace Pierre VIII Abdel-Ahad, che mi chiese di diventare il suo segretario. Nei miei primi anni di sacerdozio la nostra Chiesa ha vissuto una crisi che ha opposto una parte del clero al Patriarca, al punto che si è dimesso. Ho vissuto tutto questo dall’interno e in prima linea. Il nuovo patriarca, Mar Ignace Joseph III Younan, mi ha tenuto come segretario. Questi due patriarchi mi hanno affidato ogni genere di responsabilità, tanto che in dieci anni sono stato vice-tesoriere, cancelliere, direttore scolastico, ho lavorato al tribunale ecclesiastico e ho fatto il parroco».
Una formazione accelerata che spiega perché il sinodo della Chiesa siro-cattolica lo ha scelto nel 2019, a soli 40 anni, per succedere al vescovo Grégoire Pierre Melki come esarca patriarcale a Gerusalemme. «Sono stato inviato a Gerusalemme nel 2016 per assistere il vescovo Melki come parroco nella città. Abbiamo due parrocchie in Terra Santa: quella di Gerusalemme – la città vecchia e i distretti di Beit Safafa e Beit Hanina – e quella di Betlemme. Qui si trova la maggior parte dei nostri fedeli, anche se alcune famiglie sono sparse tra Giaffa, Haifa e Ramallah. Ma la verità è che siamo una comunità molto piccola di circa 350 persone».
Eletto vescovo nel 2019, monsignor Semaan ha ricevuto la consacrazione episcopale nell’agosto 2020. «La nostra Chiesa ha proposto il mio nome a Roma, che ha fatto una lunga inchiesta. Quando finalmente il papa mi ha confermato, era iniziata la pandemia. Abbiamo fissato l’ordinazione per il 15 agosto dell’anno scorso, sperando che il Covid-19 ci desse un po’ di respiro, ma la tremenda esplosione del 4 agosto nel porto di Beirut era ancora nella mente di tutti. La data è stata mantenuta, sono stato ordinato e quattro giorni dopo sono risultato positivo al coronavirus! Così ho dovuto restare isolato per un mese. Appena ne sono uscito, sono partito per Gerusalemme». Il vescovo scoppia in una risata contagiosa quando accenna a questa incredibile catena di eventi.
Un compito particolare in Giordania
La sua missione per la Terra Santa è estesa anche alla Giordania. «In Giordania occorre ritrovare la nostra comunità dispersa. La chiesa e il presbiterio sono costruiti in un quartiere di Amman che nel tempo è stato ricostruito e che i cristiani hanno abbandonato. Dato che da anni non c’era sacerdote, i nostri fedeli si sono rivolti o alla Chiesa cattolica latina o alla Chiesa siro-ortodossa. Padre Thaer Abba sta cercando di riprendere i contatti e stiamo progettando di edificare una chiesa nel quartiere di Al Swaifyeh. Ma la maggior parte della nostra comunità è composta da rifugiati iracheni e tutti candidati all’esilio: 750 famiglie che hanno perso tutto e che a causa del loro status non possono lavorare in Giordania. Noi cerchiamo di aiutare il più possibile e, sia chiaro, questa assistenza è economica. Non è facile trovare i soldi per pagare l’affitto, le medicine… Le loro condizioni di vita sono estremamente difficili. La maggior parte vive nel quartiere Hashimi Shemali, dove la parrocchia latina di Nostra Signora del Carmelo condivide con noi la sua chiesa. Gli iracheni hanno molti bisogni di tipo economico, ma anche spirituale. Hanno una fede incredibile e per loro la chiesa è davvero il luogo della vita. Prima e dopo il lavoro, passano dalla chiesa, proprio come ogni giorno si va in visita a un parente».
La realtà della Chiesa a Gerusalemme e Betlemme è diversa, ci spiega il vescovo. «Devi capire che siamo una micro-comunità. E non appena c’è un disaccordo tra il vescovo e una famiglia, o il parroco e una famiglia, o le famiglie tra loro, è subito evidente. Ogni volta che una famiglia è assente, la comunità ne risente e questo si vede».
Per servire la sua Chiesa, monsignor Semaan può contare a Betlemme sull’appoggio del parroco, padre Mansour Mattosha. «Ma ha 73 o 74 anni, si dimetterà l’anno prossimo e ha già detto che tornerà nel suo Paese d’origine, l’Iraq. A Dio piacendo, con l’approvazione del nostro Patriarca, quest’estate chiamerò al sacerdozio il diacono Frédéric. È francese, battezzato nel rito latino, ma si è unito alla nostra Chiesa con tutte le autorizzazioni necessarie. Ne sono al corrente il nunzio apostolico e il patriarca latino, mons. Pizzaballa. Cerco un altro sacerdote per Gerusalemme. Sarebbe necessario essere tre».
Vivere l’unità
Non è la priorità del vescovo riempire le sue chiese. «La priorità è vivere l’unità tra di noi. Ecco perché voglio offrire prima attività conviviali. Atempo debito potrò offrire un approfondimento spirituale. Ma non è la prima cosa che i fedeli attendono».
Le aspettative dei fedeli riguardano un aiuto economico per pagare l’affitto di casa, le rette della scuola, ecc. «Posso anche lasciarmi scoraggiare, ma devo rendermi conto che qui si può anche frequentare la Chiesa che ha di più da offrire. E mi faccio carico di fornire questo aiuto concreto. Lo farò anche se la pandemia e la crisi economica che ne è seguita hanno cambiato i parametri».
Infatti, la fonte di reddito dell’esarcato erano due alberghi che da un anno sono chiusi. «Per il momento, con i soldi che avevamo messo da parte, sto aiutando le famiglie colpite dalla pandemia, ma il mio desiderio più ardente è di rinnovarle nella loro appartenenza alla Chiesa siriaca, facendo loro riscoprire la nostra cultura siriaca. Spero davvero di rivitalizzare la nostra identità aramaica. Sono libanese, i miei parrocchiani sono palestinesi o hanno passaporto israeliano. Si dice che siamo arabi e, in effetti, l’arabo è la nostra lingua, ma noi siamo aramei. Israele ha riconosciuto la nazione aramaica! Voglio far rivivere questa eredità nella liturgia aramaica, nella conoscenza della cultura e della storia del popolo aramaico che ha più di tremila anni di esistenza. Abbiamo molto di cui essere orgogliosi. Non si tratta di negare il nostro attaccamento alla nostra identità nazionale, ma di rivendicare la pluralità di popoli e culture che hanno nutrito il Medio Oriente nei secoli. Il fatto che oggi abbiamo in comune la lingua araba non ci rende tutti arabi in modo uniforme e non sono solo gli arabi ad avere un posto in Medio Oriente. Il mosaico delle culture è a beneficio di tutti. È mio dovere preservare questa Chiesa e le sue specificità presenti a Gerusalemme: la Chiesa siro-cattolica, che prega nella lingua di Gesù Cristo e della Vergine Maria, la prima lingua in cui la Chiesa si è espressa, prima del greco!».