Non ce l’ha fatta a conquistare l’Oscar come migliore documentario corto. Troppo «straziante e sconvolgente» per la sensibilità di Hollywood, aveva previsto alla vigilia della cerimonia, avvenuta ieri 25 aprile, il quotidiano The New York Times. Hunger Ward («Reparto Fame»), il bellissimo documentario del regista Skyie Fitzgerald sulla guerra in Yemen e sulla carestia – provocata dall’embargo saudita – che fa strage di bambini, era stato però selezionato nella cinquina finalista del premio cinematografico più importante dell’anno.
In quella che è diventata una delle peggiori catastrofi umanitarie e del pianeta, Hunger Ward cerca di abbattere il muro di silenzio, di indifferenza, di omertà attraverso il racconto crudo ed essenziale della vita quotidiana negli ospedali dove sono portati i piccoli morenti per fame. Nelle prime scene, la telecamera inquadra immobile dal cielo, quasi con timore, un complesso ospedaliero martoriato dai bombardamenti, pieno di crepe; entra lentamente in una sala d’ingresso polverosa, dove due donne in burqa attendono in silenzio. Mostra le pale di plastica di un ventilatore che cercano di creare qualche refolo di vento, un catino azzurro di plastica attaccato al gancio di un bilanciere dove sono pesati i bambini.
Poi irrompe la morte: una neonata pelle e ossa non respira più, i grandi occhi sbarrati, una dottoressa urla che va portata in rianimazione, forse può essere ancora salvata, un’infermiera prende tra le braccia il corpicino e corre, scende scale, attraversa corridoi, scavalca altri bambini sdraiati per terra. Non si sa se riuscirà a farcela oppure no. Altri casi incalzano. Sequenza dopo sequenza, la desolazione e la violenza della fame si impongono, così come la rassegnazione di un’infanzia martoriata: lo spettatore è portato – con riprese strette – in mezzo a bambini che non piangono, non chiedono cibo, non si lamentano quando gli aghi vengono infilati nelle vene; i loro grandi occhi guardano senza emozioni chi cerca di curarli. L’effetto spezza il cuore. Anche perché si intuisce che le due presenze-guida del film, la dottoressa Aida Alsadeeq, e l’infermiera Mekkia Mahdi, combattono ogni giorno, seppur con una forza di volontà e un’empatia eccezionali, una lotta impari nei reparti di nutrizione artificiale.
Significativamente sono donne ed operano in due ospedali situati sui fronti opposti, quello filo-saudita e quello controllato dagli Houthi, sciiti e filo-iraniani. Il loro coraggio non basta. In una scena, Mekkia, l’infermiera, cerca di far sorridere una bambina arrivata da sola in ospedale e, quando finalmente ci riesce e il viso della piccola risplende di bellezza, si ha il senso di una vittoria. In realtà non lo è. Quando la bimba, dopo alcuni giorni di cure, viene ripresa dalla nonna, l’infermiera commenta con fatalismo: «Forse vivrà, forse morirà, come tutti i bambini yemeniti. Se non li perdiamo per malnutrizione, li perdiamo per la guerra».
Protagonista assoluta del documentario è la fame dei bambini. In una sola scena s’affaccia la guerra, portando lo spettatore a vedere la causa del problema e l’altra faccia della tragedia.
Con un accesso senza precedenti a una realtà rimasta senza copertura da parte dei media internazionali, il documentario è privo di commenti, di domande, di una voce narrante. Lascia parlare le immagini. Il regista Skye Fitzgerald affida il giudizio su quanto ha visto e ripreso ad una citazione su schermo nero: «Non è Dio che uccide i bambini, né il fato che li massacra, né il destino che li dà in pasto ai cani. Siamo noi. Solo noi»,
Il corto – 40 minuti – è disponibile in Italia sulla piattaforma streaming di video su richiesta Iwonderfull, al costo di 2,99 euro. È in lingua originale con sottotitoli in inglese.
Hunger Ward
di Skye Fitzgerald
produzione: Usa 2020
durata: 40 minuti