Dall’inizio della guerra in Siria, dieci anni fa, è cresciuto il livello di partecipazione e di leadership delle donne, costrette dal conflitto ad assumere ruoli dai quali erano state escluse come documenta la ricercatrice Kholoud Mansour.
Nel 2011 la Siria si trovava al 124esimo posto su 135 Paesi nel Rapporto mondiale sul divario di genere ( Global Gender Gap Report ) ed al 136esimo su 190 Paesi per la presenza femminile tra i parlamentari: la rappresentanza politica delle donne in Siria era ridotta all’osso, sia a causa di leggi autoritarie sia a per il sistema di valori patriarcali del Paese. Oggi, dieci anni dopo la rivolta scoppiata a Dera’a il 15 marzo 2011, ci sono almeno 13 associazioni femministe, tra le quali varie organizzazioni-ombrello, nate dopo il 2011 e attive sia in patria che nella diaspora per promuovere i diritti delle donne siriane, di quelle che sono rimaste entro i confini e di coloro che sono rifugiate all’estero. «Le siriane in questi dieci anni hanno giocato ruoli chiave nell’attivismo sociale e umanitario: tuttavia la natura violenta del conflitto, i ripetuti spostamenti, le strutture di governo in continuo cambiamento, uno scenario di precarietà in tutto il Paese, insieme alle azioni delle autorità de facto al potere e alla mancanza di sicurezza hanno limitato la portata della loro partecipazione, soprattutto al livello politico» rimarca la politologa siriana Kholoud Mansour, oggi ricercatrice nel Centro Studi avanzati sul Medio Oriente dell’Università di Lund (Olanda).
Gli ostacoli da superare
Molte sono le barriere, spiega la studiosa, che ha lavorato a più riprese negli anni scorsi nella cooperazione umanitaria in Siria, che inibiscono la partecipazione delle donne e le scoraggiano dall’entrare nell’arena politica. «Le donne si muovono sotto una pesante cappa di costrizioni culturali, fisiche e strutturali. Il regime degli Al-Assad ha vietato l’attivismo politico per molti decenni, mentre gli ostacoli giuridici e nell’istruzione sono stati esasperati dal conflitto. Norme culturali e patriarcali unite agli svantaggi economici sono tutti vettori che hanno spinto le donne siriane ai margini della sfera pubblica. Le siriane hanno dovuto anche affrontare ulteriori pressioni sociali come lo stigma, pesanti critiche, confronti con gli uomini, divulgazione pubblica di informazioni personali, diffamazione, umiliazioni».
Fuori dal processo di pace
Benché l’esclusione delle donne dal semi-congelato processo di pace non sia una prerogativa siriana ma resti una sfida globale, è un dato di fatto che le agenzie internazionali si siano sforzate di applicare la Risoluzione Onu 1325 del 2000 sulla necessità del coinvolgimento delle donne nei negoziati contro la resistenza delle delegazioni siriane in conflitto, sia dei governativi sia dell’opposizione (il quinto round di colloqui inter-siriani mediati dall’inviato speciale dell’Onu Geir Pedersen a Ginevra a fine gennaio non ha dato alcun esito). «L’aspetto più grave – per Kholoud Mansour – è che la percezione generale del campo politico come corrotto, marcio e non sicuro, ha spinto molte donne a lasciare la politica o a non tentare affatto di entrarvi. Tutti questi fattori non hanno contribuito a creare un ambiente sicuro e sostenibile per far sì che le siriane si impegnassero nell’attività politica e negli sforzi per la pace».
Mansour: «Cercare nuovi approcci»
Secondo la studiosa «ogni forma di sostegno alle donne, sotto qualsiasi forma si presenti, non dovrebbe mai depoliticizzarle o chiedere loro di assumere delle posizioni blande in un ambiente altamente politicizzato e polarizzato. C’è una tendenza diffusa a spingere per l’unità e a trattare le siriane come soggetti apolitici, privandole in tal modo del loro agire sociale, un approccio che finisce per contraddire gli appelli internazionali per la partecipazione politica femminile e per la loro inclusione nel processo di pace. Il dispiegamento di una cornice di economia politica è vitale per analizzare e capire la partecipazione significativa delle donne siriane con lo sguardo teso a superare le barriere giuridiche che ostacolano la loro partecipazione. Gli sforzi dovrebbero essere investiti nel rafforzamento di approcci e meccanismi non tradizionali in modo da investire nei gruppi di base delle donne e accrescere la loro rilevanza politica attraverso diversi mezzi. Questo servirebbe a collegare processi formali e informali, fra donne siriane impegnate nei protocolli di pace internazionali e associazioni delle comunità di base di donne, ed anche fra siriane ed altre reti globali di mediatrici donne».
Milioni di profughi e sfollati
Nel corso di dieci anni la Siria è divenuta il campo di battaglia di una guerra per procura fra potenze regionali e mondiali della quale non si intravvede la fine: oltre ad aver provocato almeno mezzo di milione di morti, il conflitto ha gettato in una grave crisi umanitaria 11,7 milioni di siriani, dei quali 5 milioni bambini e 6,1 milioni di sfollati interni (un milione e mezzo che sono rientrati ma non hanno mezzi di sussistenza) secondo i dati dell’agenzia per il coordinamento umanitario delle Nazioni Unite. In dieci anni più della metà delle infrastrutture del paese sono state distrutte e la sovranità nazionale è seriamente compromessa: il regime oggi, documenta uno dei maggiori centri studi internazionali ( The Washington Institute for Near East Policy ), controlla i due terzi del Paese, comprese le sei città più importanti dove vivono 12 dei 17 milioni di siriani rimasti all’interno del Paese mentre altri 6,7 milioni sono profughi all’estero, ma i governativi hanno in mano appena il 15 per cento dei confini, il resto è frazionato tra entità diversa. L’inflazione è schizzata alle stelle sui beni di prima necessità anche a causa delle sanzioni dei Paesi occidentali contro il regime e il Paese ha scarsi mezzi per battere il coronavirus.
Perché Il giardino di limoni?
Il limone, dall’arabo līmūm, non è forse uno dei frutti che meglio rappresentano la solarità e i profumi del Mediterraneo? Il giardino di limoni evoca, certo, il bel film di Eran Riklis sulla storia vera dell’agricoltrice palestinese Salma Zidane. Ma, allargando lo sguardo, quest’immagine mi fa pensare anche alla capacità delle donne di prendersi cura di chiunque le circondi, si tratti di una piantina umana o vegetale, e più ancora di trarre le essenze più dolci dai frutti più aspri, trasformandole in risorse per se stesse e gli altri. Come non smettono di insegnarci migliaia di femministe che dagli albori del «secolo lungo arabo» (1916-2011), proprio come avvenuto nel resto del mondo, si battono per vincere la secolare tradizione di soggezione e asservimento delle donne, da cui non è facile liberarsi. Proveremo in questo blog a raccontare, oltre gli stereotipi e nei differenti contesti del Nord Africa e Medio Oriente, i germogli di questi laboratori e le storie di chi prepara la fioritura.
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Laureata in Lettere moderne e giornalista professionista dal 1999, Manuela Borraccino ha seguito dal 1998 il Vaticano e il Medio Oriente per le agenzie Ansa (1997-2001), per l’Adnkronos (2001-2004) e per il service televisivo internazionale ROMEreports (2004-2009), per il quale ha girato e prodotto alcuni documentari sull’impegno della Chiesa cattolica nei Paesi in via di sviluppo e nella prevenzione dell’Aids. Ha scritto reportage da Israele e dai Territori palestinesi per testate italiane e straniere e ha lavorato come field producer per emittenti latino-americane nei due Conclavi del 2005 e del 2013. Ha pubblicato per le Edizioni Terra Santa e per l’Editrice La Scuola. Ha diretto per tre anni (2017-2019) il settimanale diocesano di Novara ed è cultrice della materia in Storia contemporanea presso la Libera Università di Lingue e comunicazione (Iulm) di Milano.