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Siria 2021, Assad in sella ma senza petrolio

Fulvio Scaglione
23 marzo 2021
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La Primavera siriana del 2011 è stata ben presto trasformata in una guerra senza fine. Se il tentativo di abbattere il presidente Bashar al Assad è fallito, ha avuto invece successo l'impresa di togliere a Damasco il controllo sul suo petrolio.


Molti hanno ricordato l’anniversario della Primavera siriana del 2011, trasformata in poco tempo nell’incubo che abbiamo visto svolgersi per dieci anni. E per favore, diciamo «trasformata» e non «trasformatasi». Il 6 luglio del 2011 c’erano già gli ambasciatori di Usa e Francia a sfilare nei cortei di protesta. Poco dopo sarebbero partite, nei Paesi del Golfo Persico, le raccolte di fondi e armi per i gruppi jihadisti attivi in Siria. La repressione di Bashar al-Assad, che nelle prime settimane di quella Primavera sembrava colto di sorpresa e impotente, fece poi il resto.

L’interpretazione «rivoluzione contro reazione» è sempre stata approssimativa. La carneficina siriana andrebbe analizzata con più raziocinio e non abbandonata agli isterismi delle rispettive tifoserie. Adesso, poi, la situazione è chiara: il progetto di abbattere Assad è fallito. Dal punto di vista militare, grazie all’intervento di Russia e Iran e dell’Hezbollah libanese. Ma anche dal punto di vista politico. Anzi, sono piuttosto evidenti i segnali del fatto che molti Paesi del Medio Oriente sarebbero disposti a riprendere le relazioni con la Siria assadiana. Gli Emirati Arabi Uniti e il Bahrein hanno riaperto le ambasciate a Damasco, Egitto e Algeria non hanno mai interrotto i rapporti, la Lega Araba potrebbe anche riaccogliere la Siria. A quanto pare c’è chi rimpiange di aver assecondato (e anche finanziato, in qualche caso) l’attacco alla Siria favorendo i Fratelli Musulmani e i Paesi che li hanno sempre appoggiati, Turchia in primo luogo ma anche Qatar.

Questo non vuol dire, però, che quel progetto non avesse una sua razionalità. Dieci anni fa, prima della guerra, la Siria estraeva 400 mila barili di greggio al giorno. Poca cosa rispetto alle potenze petrolifere del Golfo Persico. Quanto bastava, però, per garantire l’autosufficienza energetica al Paese e procurare un non disprezzabile utile di circa 700 milioni di dollari al mese, pari a circa il 20 per cento delle spese previste dal bilancio dello Stato. I principali campi petroliferi siriani si trovano nella parte Est del Paese, quella compresa tra il confine con l’Iraq e quello con la Turchia. E stranamente, anche se la Primavera siriana era scoppiata nel Sud del Paese, quella è l’area dove i jihadisti di Al Qaeda e dell’Isis sono sempre stati forti e dove si è combattuto con più violenza, come le vicende crudeli della città di Deir az-Zor possono confermare. La stessa area oggi è sotto il controllo delle truppe Usa, che occupano il 90 per cento dei campi petroliferi siriani e distribuiscono parte del greggio ai loro alleati curdi e arabi.

Solo coincidenze, ovviamente. Mentre non è una coincidenza il fatto che Usa e Unione Europea abbiano ancora inasprito le sanzioni economiche contro la Siria. Provvedimenti di questo genere non hanno mai funzionato. Basta pensare a Cuba, Iran e Russia, per fare solo qualche esempio, per capirlo. I dirigenti politici dei Paesi sanzionati non hanno mai cambiato politica e tanto meno hanno abbandonato il potere. Quindi si può dedurre che ciò che si spera di ottenere, attraverso le sanzioni, è che il popolo stia così male e soffra così tanto da scatenare una rivoluzione. In sostanza, che sia disposto anche a morire pur di non vivere così male. Nella politica internazionale abbiamo visto di tutto, per carità. Ma è solo negli ultimi tempi che tutto questo viene chiamato «ingerenza umanitaria».

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