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Rivoluzioni 10 anni dopo, la parola alle donne

Manuela Borraccino
16 marzo 2021
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Rivoluzioni 10 anni dopo, la parola alle donne
Un furgone con sfollati siriani a bordo nell'ottobre 2019. (Afp/Sir)

C’è un legame strettissimo fra donne, pace e sicurezza, riconosceva la Risoluzione 1325 approvata dal Consiglio di sicurezza dell'Onu il 31 ottobre 2000. Eppure resta scarsissimo lo spazio dato alle donne nei processi di pace in Nord Africa e Medio Oriente. Anticipiamo qui il tema del dossier della rivista Terrasanta di marzo-aprile 2021.


«La rivoluzione in Siria – racconta al telefono dalla Germania l’attivista e giurista siriana Joumana Seif – è iniziata come una fortissima spinta collettiva dal basso per la libertà, la dignità e l’uguaglianza. Ancora oggi rivivo lo stupore di aver visto scendere in strada in quella primavera nel mio quartiere di Damasco Al-Midan, un quartiere antico, conservatore e della classe media, una marea di donne giovani e anziane, con una partecipazione che mai avrei immaginato: c’erano impiegate, insegnanti, piccoli commercianti, studentesse. È stato un momento esaltante che ci ha unito tutte e tutti».

Dera’a, 15 marzo 2011

Era iniziato tutto con la comparsa di alcune scritte sui muri nella città di Dera’a: «Dottore, adesso tocca te» avevano scritto dopo la caduta di Ben Ali e di Hosni Mubarak degli adolescenti, poi arrestati e torturati dai servizi di sicurezza siriani: furono le proteste della popolazione contro quelle torture e la durissima repressione del regime il 15 marzo ad accendere la miccia. Il Paese che era il bastione della stabilità in Medio Oriente è oggi un paese allo stremo, divenuto il campo di battaglia di una guerra per procura fra potenze regionali e mondiali: oltre ad aver provocato almeno mezzo di milione di morti, il conflitto ha gettato in una crisi umanitaria 11,7 milioni di siriani, dei quali 5 milioni bambini e 6,1 milioni di sfollati interni con altri sei profughi all’estero secondo i dati dell’Ufficio di coordinamento delle Nazioni Unite per le questioni umanitarie.

Dalla Primavera di Damasco all’esilio

Joumana Seif, che aveva partecipato insieme al padre Riad ai movimenti associazionistici della Primavera di Damasco del 2001 che avevano sollevato tante speranze per la democratizzazione della Siria dopo la morte di Hafiz al Assad, come accaduto ad altri attivisti è stata costretta a lasciare la Siria nel 2012. «Ci eravamo trasferiti con la mia famiglia e i miei tre figli al Cairo, pensando che le dimissioni e l’esilio di Assad fossero una questione di mesi. Ma quando, nel 2013, le dinamiche delle grandi potenze verso il regime sono cambiate e anche il Cairo non è più stata una città sicura per chi lottava per la democrazia, abbiamo chiesto asilo politico in Germania». Oggi Joumana conduce campagne di sensibilizzazione per i prigionieri politici in Siria e lavora con il Centro europeo per i diritti umani e costituzionali sui contenziosi internazionali aperti con la rivelazione dei crimini commessi nei centri di detenzione in Siria con le torture, le uccisioni, le violenze sessuali e di genere.

Un tribunale tedesco pronuncia la prima condanna

È stata tra i giuristi grazie ai quali è iniziato nell’aprile 2020 in Germania il primo processo al mondo sulla tortura di Stato in Siria, nella Procura regionale di Coblenza: tra i capi di imputazione figurano crimini contro l’umanità, 58 omicidi e almeno 4.000 casi di tortura. Lo scorso 25 febbraio è stata emessa la prima condanna contro un funzionario di Bashar al Assad fuori dalla Siria: l’ex colonnello dei servizi segreti siriani Eyad al-Gharib è stato condannato a quattro anni e mezzo di carcere per crimini contro l’umanità per le torture che ha autorizzato nelle carceri contro i detenuti.

Onu: In Siria decine di migliaia di sparizioni forzate

Un recente rapporto del Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite ha confermato, grazie a 2.650 interviste di sopravvissuti alle carceri, diverse decine di migliaia di sparizioni forzate in Siria tra gli oppositori al regime. La stessa Joumana Seif, tra l’altro, ha redatto con l’attivista sopravvissuta al carcere Wejdan Nassif il rapporto sulle detenute siriane Parole contro il silenzio ( Words Against silence ), una raccolta di 27 testimonianze sulle torture e gli abusi vissuti in carcere sia sotto la dittatura di Hafiz al Assad sia dopo l’avvento al potere del figlio. «Le donne sono state usate come ostaggi contro gli oppositori fin dal 1980, e le attiviste della rivoluzione sono finite nel mirino del regime fin dal 2011: vengono arrestate e spesso torturate, violentate in carcere con l’evidente obiettivo di terrorizzare le altre donne che partecipano attivamente alla vita della nazione e dire loro che dovrebbero tenersi alla larga dall’attivismo politico. Questo è il modo in cui il regime riesce a fare pressione sulle famiglie delle attiviste per impedire loro – siano figlie, sorelle, moglie – di partecipare alla rivoluzione. Quindi esiste una forte pressione sociale e governativa nel non impegnarsi sul fronte dei diritti umani. Nelle aree sotto il controllo governativo, l’attivismo è molto basso. Non c’è alcuno spazio per la libertà di associazione o di parola: il regime è riuscito a farci avere paura di tutto».

Più spazio alle donne

In Egitto Joumana Seif ha avviato nel febbraio 2013 la Rete delle donne siriane ( Syrian Women’s Network ), una delle 13 organizzazioni femministe attive oggi per includere le donne nei negoziati per la Siria. E a Parigi ha fondato nell’ottobre 2017 il Movimento politico delle donne siriane ( Syrian Women’s Political Movement ), primo movimento politico a guida femminile dedicato a proteggere i diritti delle donne in una Siria libera e democratica. «Ci siamo rese conto che era giunto il momento di agire politicamente e per questo abbiamo costruito un movimento per rafforzare le donne e fare in modo che sia loro dato peso politico, creando un fronte femminista».

Le donne, riconosceva la Risoluzione Onu 1325 approvata dal Consiglio di sicurezza il 31 ottobre 2000, offrono il vantaggio di privilegiare soluzioni politiche su quelle militari; adottano un approccio incentrato sulla difesa della popolazione civile; le statistiche dimostrano che il loro coinvolgimento ha garantito una pace durevole proprio per il ruolo che le donne esercitano nella preparazione delle elezioni, nel disarmo, nei processi giudiziari, nella ricostruzione economica e nel contrasto della povertà. Eppure, nonostante tutti gli sforzi delle associazioni e delle istituzioni internazionali, la presenza di almeno il 30 per cento di donne presenti ai tavoli dei negoziati per la Siria e la Libia, o nei processi di transizione democratica come in Egitto, resta un miraggio.

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