È il modo migliore per capire le primavere arabe e le ragioni che le hanno determinate. Senza tanta filosofia, ma con la semplice forza del tratto di matita e delle vignette che rivelano tutte le contraddizioni di un mondo che non è a misura di bambino, e nemmeno a misura di adulti felici.
L’arabo del futuro e L’Arabo del futuro 2 – pubblicati in edizione italiana da Rizzoli Lizard rispettivamente nel 2015 e nel 2017 – è la rivelazione della graphic novel Riad Sattouf, già notissimo in Francia come uno dei disegnatori di Charlie Hebdo, ma che dal 2016 ha avuto enorme successo personale con la pubblicazione dell’educazione (non solo sentimentale) del piccolo Riad (di fatto lui stesso), arrivata ormai al quinto di sei volumi, appena pubblicato dalle Allary Editions.
Figlio di Abdel-Razak, siriano, e di Clémentine, bretone, Riad nei primi anni Ottanta cresce tra la Francia, la Libia di Gheddafi e la Siria di Assad. Questa è la storia di Sattouf che è arrivato finora a raccontare la sua vita fino all’adolescenza, negli anni Novanta. I lettori italiani si devono per ora accontentare delle cronache della sua giovanissima vita fino al 1985, contenute nei volumi 1 e 2 già tradotti. Una vita che ha poche sicurezze, tre in tutto: la prima è il padre Abdel-Razak, docente universitario laureato alla Sorbona, convintamente panarabo, nazionalista, socialista, che vive in Francia fino a decidersi di accettare una carriera prima nella Libia di Gheddafi, poi nella Siria di Assad, sua terra natale; la seconda è la madre Clementine, francese un po’ hippy e un po’ svagata, ma che ha ben chiari i temi della liberazione sessuale femminile e che si trova sballottata insieme al figlio in mondi che le appartengono poco, salvo ogni tanto fare ritorno in Francia per le vacanze da una bizzarra famiglia allargata; la terza sono i valori del padre, vale a dire la patria, la giustizia, e, soprattutto, l’educazione.
Così Riad, «boccuccia di rosa e lunghi capelli dai riflessi dorati» fin dai tre anni di età, impara che «l’arabo del futuro va a scuola» per affrancarsi dalla religione. E proprio la scuola (oltre al cortile di casa, alla strada, alle piazze) diventa il cuore dell’educazione di Riad, un’educazione dura e poco «sentimentale»: per prima cosa Riad impara che il figlio di una coppia mista sarà sempre uno straniero. Per gli arabi in Libia e soprattutto in Siria, Riad è «l’ebreo», o meglio, il figlio dell’ebrea (così definito per via dei suoi capelli biondi e della nazionalità della madre). Similmente in Francia resta «l’arabo» perché figlio di un uomo arabo. Un bel problema per un bambino dai tre ai sei anni, che già fatica a destreggiarsi fra tre lingue e parenti mai visti prima. Ma questo è solo l’inizio: Riad si barcamena tra le musiche di George Brassens, adorate dalla madre, e le battute di caccia al piccione incoraggiate dal padre; tra la calligrafia araba, che gli riesce benissimo, avendo grande facilità con la matita, e il timore di maneggiare le armi, attività nella quale i suoi compagni di giochi in Libia prima e quelli di classe in Siria poi sembrano già abbastanza scafati; tra l’abbondanza di cibo e di oggetti che a ogni ritorno in Francia gli offrono i nonni materni, e le banane razionate o i mobili sbreccati che il welfare della Libia e della Siria concedono alla famiglia Sattouf.
I libri successivi – dal 3 al 5, già usciti in lingua originale – confermano, attraverso l’approfondimento delle vicende siriane, l’analisi degli accadimenti iracheni e il riflesso di questi rapporti sull’Europa, quel che già si vede nei due volumi tradotti per il pubblico italiano: lo svelamento della vita quotidiana in due delle peggiori dittature del Medio Oriente, e le ragioni della diffusione, introiezione, e poi manifestazione esteriore del sentimento della paura. Paura che si tramuta in leggende su spiriti cattivi, in aggressività verbale e fisica, in coercizione comportamentale, in punizione corporale, in senso del fallimento e della propria nullità, soprattutto di fronte all’autorità costituita.
A proposito di autorità, nella graphic novel di Sattouf, la scuola sta alla nazione come il maestro sta al dittatore, in una scala di autoritarismi proporzionati all’età dei cittadini. Così il piccolo Riad un po’ subisce, un po’ osserva e un po’ ironizza su tutto questo: di sicuro, oltre ad avere imparato a memoria l’inno siriano, ha anche imparato uno degli insulti peggiori, «figlio di un cane» che, al momento, rivolge a chi lo bullizza, guardandosi però bene dal gridarlo davanti all’immagine del padre della patria Hafiz al Assad.