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Quel che resta della sinistra israeliana

Alessandra Abbona
22 marzo 2021
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Quel che resta della sinistra israeliana
20 marzo 2021, proteste a Gerusalemme contro il primo ministro Benjamin Netanyahu, a pochi giorni dal voto. (Foto Olivier Fitoussi/Flash90)

Alla vigilia delle elezioni politiche del 23 marzo, alcune voci israeliane descrivono il quadro politico. Pur vicine agli ideali di una sinistra che ha gettato le basi dello Stato ebraico, testimoniano il suo incessante declino. Salvo qualche sorpresa dell’ultimo momento.


Martedì 23 marzo in Israele si torna per la quarta volta alle urne nell’arco di meno di due anni. Il Paese sta uscendo con successo dall’epidemia di coronavirus e il primo ministro Benjamin Netanyahu, leader dello storico partito di destra Likud, cavalca orgogliosamente questo primato. Da dodici anni al timone del Paese, lo scaltro «Bibi» sembra rimanere indenne alle accuse di corruzione, frode, abuso di potere che lo hanno portato in tribunale, così come non lo scalfiscono le migliaia di manifestanti che ogni sera da quasi un anno occupano i dintorni di Balfour Street, la via dove si trova la sua residenza a Gerusalemme, chiedendo la sua uscita di scena.

Anche questa volta è impossibile che dalle urne elettorali esca una maggioranza per formare un governo: così i fronti pro-Netanyahu e anti-Netanyahu devono ognuno trovare il modo di creare una coalizione più larga possibile, cooptando ogni genere di alleato. Il dato certo e inconfutabile è che il panorama politico israeliano è costituito per la maggior parte da partiti di destra, sia essa moderata, nazionalista laica, religiosa ebraica ultraortodossa (sefardita e askenazita) o islamica (parte della lista araba unita).

Ma che cosa resta oggi della tradizione politica più di sinistra, che ha plasmato le origini dello Stato di Israele? Nei primi trent’anni quest’area ha espresso tutti i primi ministri, e poi ancora con Peres, Rabin e Barak alcuni governi più recenti, fino al 2001. Poi la storia politica di Israele ha cambiato linea.

Una vita nel kibbutz

Del complesso panorama della politica israeliana abbiamo parlato con Luciano Assin, 64 anni ebreo milanese di origine egiziana che nel 1976 ha deciso di fare aliyah in Israele, stabilendosi nel kibbutz Sasa che si trova nell’Alta Galilea, ai confini con il Libano. Laureato in Sociologia, ha lavorato in vari settori ed è un profondo conoscitore della storia e dell’attualità del suo Paese.

«I cosiddetti partiti di sinistra rischiano, questa volta, di faticare a superare lo sbarramento del 3,25 per cento dei voti validi che sono necessari per entrare alla Knesset, il parlamento israeliano, che conta 120 seggi, con sistema proporzionale a collegio unico – sostiene Assin –. A rischio di “estinzione” sono l’HaAvoda, partito laburista, e Meretz, socialdemocratico ed ecologista». Assim ci ricorda che quello laburista è il partito dei padri fondatori dello Stato ebraico (Ben Gurion e Rabin, per citare le figure più simboliche), ma che è in profonda crisi da oltre un decennio. Oggi è guidato da Merav Michaeli, classe 1966, attualmente unica donna a capo di partito nel Paese, HaAvoda nei sondaggi più recenti viene dato con 5 seggi alla Knesset: «Davvero il “minimo sindacale” per una compagine politica che ha costruito le basi di Israele… – osserva Assin. E conclude –: Meretz, guidato oggi da Nitzan Horowitz, viene dato nei sondaggi a 4 seggi, ma potrebbe davvero non passare lo sbarramento questa volta: è un partito più a sinistra dei laburisti, ambientalista, di nicchia, tacciato di essere un po’ radical chic».

L’imprenditore disincantato

Nadav Malin, attivista di Slow Food, 37enne che si è formato come cuoco in Italia e in Spagna, vive e lavora vicino a Gerusalemme, dove ha sede la sua società di catering. La sua formazione internazionale gli ha dato una visione ampia sul mondo e talvolta anche critica del proprio Paese. La pandemia ha bloccato Israele per alcuni mesi, così come in parte la sua attività: le elezioni di martedì lo vedono abbastanza disincantato. «La sinistra è in fase calante da molti anni ormai – afferma –. Non è un processo solo israeliano, ma credo anche europeo. La gente qui sposta il proprio voto verso il centro o la destra. Il conflitto israelo-palestinese non è il punto focale del dibattito politico e non è neppure all’ordine del giorno nei programmi dei partiti di sinistra. L’israeliano medio non vuole cambiare lo status quo, non sta così male, e non ha un grande interesse nei confronti delle ideologie politiche». Riguardo a Netanyahu spiega: «Ormai è diventato un referendum permanente su Bibi. Lui è molto astuto, sa parlare alla pancia del Paese, tocca temi come la sicurezza e, con la campagna di vaccinazione, ha fatto centro. Quindi c’è chi lo vota per ragioni razionali, e chi voterebbe qualsiasi cosa, basta che sia contro di lui». E i partiti di sinistra? Secondo Nadav Malin, Michaeli è seria e valida, però «sbandiera un linguaggio femminista un po’ esagerato». L’attivismo ambientalista e legato alla sostenibilità che interessa a Nadav purtroppo non è al centro nell’agenda della sinistra, quanto piuttosto appannaggio di ong o fondazioni filantropiche. Forse anche in Israele come in Europa, ad attrarre le giovani generazioni non sono più le forme classiche di struttura partitica, quanto i movimenti dal basso…

Nostalgici e allevatori nel Neghev

Anat e Daniel Kornmehl, entrambi con laurea in scienze agrarie e zootecniche, quattro figli, vivono nel deserto del Neghev, vicino a Sde Boker, che fu l’ultima residenza di Ben Gurion. Qui conducono un allevamento di capre da latte, un caseificio rinomato e un ristorante. Da sempre sono orientati a sinistra, in particolare Anat è una simpatizzante di Meretz: «Voterò ancora Meretz, non voglio che scompaia – afferma con convinzione –. Mi piace anche Meirav Michaeli, ma voto il partito che è più a rischio di non farcela». Il marito, Daniel, è molto critico verso il premier Netanyahu e la gestione propagandistica della campagna anti Covid: «È un uomo senza scrupoli, cade sempre in piedi». Di HaAvoda ricorda come sia stato il partito che ha costruito il welfare della nazione, ma è decaduto a causa di dirigenti poco validi, come Amir Peretz. «La Michaeli è brava, è giusta nel suo ruolo e sono certo che saprà fare cose buone». Ma anche lui sembra non apprezzare la forte identità femminista. Alle scorse elezioni, per far fronte contro Netanyahu, Daniel si era fidato di Benny Gantz e del suo partito centrista Blu e Bianco, che oggi si è sgonfiato «come un soufflé». Resta poco convinto di un qualche cambiamento e, riflettendo un sentimento diffuso, afferma che voterà il meno peggio.

Intanto la Michaeli ha ricevuto il sostegno pubblico dell’ex premier Ehud Olmert (ex Likud e Kadima, anche lui finito in guai giudiziari) che sul Jerusalem Post ha affermato che voterà per lei in quanto donna coraggiosa, onesta e capace. Il partito laburista, inoltre, ha sorprendentemente arruolato nelle proprie file anche un rabbino riformato, Gilad Kariv. Diversi rabbini hanno occupato seggi in parlamento, ma sarebbe una prima volta assoluto per un esponente dell’ebraismo riformato.

Basterà il carisma un po’ rigido della Michaeli, unito al plauso di un ex primo ministro di centro-destra e alla presenza di un candidato religioso per far crescere il peso di un partito che ha perso smalto già da tempo?

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