«Dopo aver tentato per mesi, sono finalmente riuscito ad andarmene da Lesbo. In Grecia però, a causa del Covid, ogni via d’uscita mi era sbarrata e non avendo altre soluzioni possibili, sono partito a piedi per la rotta balcanica. Ora sono appena arrivato in Serbia». Il messaggio di Ahmad ci arriva in maniera del tutto inaspettata, mentre, in una fredda giornata d’inverno, seguiamo passo dopo passo la visita che, fine gennaio, alcuni europarlamentari italiani stanno compiendo in Croazia e Bosnia per denunciare quanto avviene ai confini d’Europa. Ahmad l’avevamo conosciuto cinque mesi fa al porto di Mitilene, nell’isola di Lesbo, mentre cercava, invano, di salire di nascosto su una nave diretta ad Atene. Siriano di Damasco, 25 anni appena compiuti e tanta voglia di arrivare a destinazione, si era appuntato il nostro numero di telefono in un quadernino consumato che teneva stretto a sé, in una busta di plastica nella tasca segreta della giacca, assieme al diploma di laurea in ingegneria elettronica e ad alcune banconote accuratamente arrotolate con un elastico.
Lo scoglio Bosnia
Ahmad non sa ancora come riuscirà a lasciare la Serbia, ma su una questione non ha dubbi: qualunque cosa succederà, per la Bosnia non ci deve passare. Già dal 2019 erano tanti i racconti di violazioni dei diritti umani, di respingimenti e violenze al confine da parte della polizia croata e di campi-caserma senza diritti e dalle condizioni di vita disastrose. Dal 23 dicembre scorso, quando il campo di Lipa è stato dato alle fiamme, la situazione nel Paese è diventata ancora più complessa, tanto da attirare l’attenzione e la denuncia dei principali media internazionali.
Il naufragio dei diritti umani
Lipa, costruito nel marzo 2020 circa 30 chilometri a sud della città di Bihać, in un’area montagnosa lontana da centri abitati e servizi, era stato inizialmente pensato come campo temporaneo per l’emergenza Covid, ma poi adibito all’accoglienza dei richiedenti asilo presenti in Bosnia, senza che venissero mai garantiti gli standard umanitari minimi, con accesso precario ad acqua ed elettricità. Con la chiusura voluta dalle istituzioni locali nel settembre 2020 del campo di Bira, ex fabbrica di frigoriferi riconvertita a centro per oltre duemila migranti nell’area di Bihać, e con l’arrivo dell’inverno, l’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim), responsabile della gestione del campo, ha chiesto che venissero trovate soluzioni alternative a Lipa, del tutto inadatto per la stagione più fredda. Di fronte alla mancanza di risposte, l’Oim ha deciso di rimettere il mandato lasciando il campo e smontando alcuni tendoni dove dormivano le persone. Il 23 dicembre scorso, quando è stato dato fuoco a ciò che rimaneva del campo, si è riaperta una disputa politica interna che ha di fatto cristallizzato la situazione tenendo bloccati al gelo oltre 1.500 migranti.
Rigetto e proteste
In un primo momento le persone sono state caricate in autobus per essere trasportate a Bradina, in un’ex base militare tra Mostar e Sarajevo, ma le autorità locali e le proteste cittadine hanno fermato gli automezzi impedendo di fatto il trasferimento. Anche l’alternativa di riaprire il campo di Bira ha subito trovato l’opposizione della municipalità di Bihać e di Mustafa Ružnić, primo ministro del cantone Una-Sana, dando vita a nuove proteste contro la presenza dei migranti nell’area. Così da più di un mese oltre 1.500 migranti vengono tenuti ostaggio nell’area di Lipa, con polizia e militari a pattugliare il campo e a impedirne l’uscita.
L’inverno impietoso
In questi giorni in Bosnia ha ricominciato a nevicare e la situazione rimane disperata. Le persone sono ancora confinate a Lipa in tendoni militari d’emergenza in sostituzione di quelli andati a fuoco: nonostante le numerose denunce da parte di molte organizzazioni internazionali e di forti pressioni provenienti da diverse realtà, non si è ancora voluta trovare una soluzione politica e umanitaria di lungo periodo per impedire il proseguimento e il ripetersi di una simile situazione che, solamente in Bosnia, si protrae da oltre tre anni. Le condizioni all’interno dei campi del Paese rimangono critiche, le violenze e i respingimenti da parte della polizia croata sono all’ordine del giorno, il diritto d’asilo delle persone costantemente violato con riammissioni illegali a catena in cui è coinvolta anche l’Italia. È di pochi giorni fa l’ordinanza emessa dal tribunale di Roma che condanna il ministero dell’Interno dichiarando illegittimi i respingimenti e l’applicazione dell’Accordo di riammissione tra Italia e Slovenia a chi manifesta la volontà di richiedere protezione internazionale.
Verso Nord nonostante tutto
Nel frattempo chi, come Ahmad, lascia la Grecia e decide di proseguire il viaggio verso nord attraverso la rotta balcanica senza passare per la Bosnia, deve far fronte a umiliazioni, violenze, trattamenti inumani e degradanti, il più delle volte perpetrati dalle polizie di Stati membri dell’Unione Europea. «So che la strada sarà lunga, difficile e costosa, ma non ho altra scelta. Indietro non ho dove tornare». Ahmad, da quando ha lasciato la Siria, ha sempre guardato in direzione dell’Olanda, per chiedervi asilo e avviare al più presto la procedura per il ricongiungimento familiare.