La coincidenza temporale è singolare. Una marea nera è arrivata da pochi giorni sulle coste di Israele, provocando una delle peggiori catastrofi ambientali degli ultimi anni nel Mediterraneo orientale. Le immagini di una piccola tartaruga marina ricoperta di catrame hanno fatto il giro del mondo. Migliaia di volontari si sono attivati per contenere i danni provocati dalle perdite avvenute in acque internazionali. Lungo quasi duecento chilometri di costa di Israele ora è vietato fare il bagno o campeggiare, divieto che il governo ha dovuto imporre proprio quando stavano per riaprire gli alberghi dopo il lockdown.
La perdita di petrolio è imputabile a una delle petroliere che solcano il Mediterraneo. The Times of Israel riferisce che i sospetti si stanno concentrando su una nave che batte bandiera greca (la società armatrice respinge le accuse). Si tratterebbe della Minerva Helen, che il 23 febbraio ancorata in Spagna e già in passato sospettata di avere provocato danni ambientali.
Si prevede che le conseguenze saranno durature, perché nelle zone rocciose della costa il catrame penetra fra gli scogli e danneggia i fondali. Gli ambientalisti a questo punto sono ancora più agguerriti contro alcuni ingenti progetti energetici dello Stato israeliano, in particolare una nuova piattaforma al largo delle coste mediterranee per l’estrazione del gas naturale e il trasferimento – da Eilat sul Mar Rosso al porto di Ashkelon sul Mediterraneo – del petrolio degli Emirati Arabi Uniti, nuovo Paese amico dopo la firma degli Accordi di Abramo 15 settembre 2020.
Da importatore a esportatore
L’altra faccia della questione è legata proprio alla scoperta di ricchi giacimenti di gas naturale nel Mediterraneo orientale, tali da costituire per Stato ebraico una rivoluzione energetica. Con la scoperta nell’ultimo decennio delle riserve sottomarine e l’inizio del loro sfruttamento, nel futuro di Israele non ci sarà più dipendenza dal carbone russo o dal gas dell’Azerbaigian, ma autonomia energetica. Inoltre, si delinea una proiezione strategica, infatti Israele è già diventato un esportatore di gas verso Giordania ed Egitto.
Alcuni giacimenti di gas, come Tamar e Leviathan sono già operativi, mentre in un terzo, chiamato Karish, l’estrazione dovrebbe iniziare alla fine del 2021. Si stima che Israele abbia a disposizione 900 miliardi di metri cubi di gas nei giacimenti offshore che lo rendono autosufficiente per molti anni dal punto di vista energetico. Questo permette al Paese di darsi l’obiettivo entro dieci anni di produrre il 30 per cento dell’energia con fonti rinnovabili e tutto il resto con il gas naturale. Lo ha annunciato lo scorso ottobre il ministro dell’ambiente Yuval Steinitz. Fino a sette anni fa era il carbone (importato) la principale fonte di produzione dell’energia elettrica.
Il gas sta rendendo più stretti i rapporti con l’Egitto, il più grande Paese arabo che ufficialmente ha rapporti con Israele, anche se tiepidi. I due Paesi stanno valutando l’ipotesi di costruire un gasdotto che colleghi il grande giacimento israeliano Leviathan e gli impianti egiziani per il gas liquefatto che si trovano nel Delta del Nilo. Per l’Egitto è promettente diventare a sua volta un esportatore di gas liquefatto verso l’Europa. Attualmente il gas israeliano viaggia in quantità limitata lungo un gasdotto nel Sinai, che subisce con una certa frequenza attacchi da parte di jihadisti. Il ministro egiziano del petrolio Tarek El-Molla si è recato il 21 febbraio in visita in Israele per discutere questi progetti con il collega Steinitz. Da cinque anni non avveniva una visita di così alto livello di un politico egiziano. (f.p.)