Nel Kurdistan iracheno i combattenti del sedicente Stato islamico sono tornati a farsi vivi contro le forze armate statunitensi (che hanno poi lanciato una rappresaglia sull'est della Siria). L'islamismo violento trova ancora terreno fertile nella frustrazione popolare.
Poco tempo fa, e proprio in questo blog, avevamo parlato degli evidenti tentativi dell’Isis di prendersi una rivincita in Siria. Com’era logico aspettarsi, la stessa cosa sta succedendo anche in Iraq, Paese da cui peraltro lo jihadismo dello Stato islamico aveva preso le mosse all’inizio dello scorso decennio.
Le simmetrie non finiscono qui. Siria e Iraq sotto certi aspetti si somigliano molto. Entrambi i Paesi hanno un controllo relativo sul proprio territorio, che in porzioni relativamente ampie è invece dominato da forze ostili più o meno sotterranee quando non da Paesi stranieri. In entrambi i Paesi sopravvive, e anzi prospera, un problema di estremismo islamista. Tanto in Siria come in Iraq, sia pure con manifestazioni diverse, resta irrisolta la questione del rapporto tra autorità e popolazione. Messa nei termini europei di «democrazia o dittatura» diventa (e gli interventi armati occidentali lo dimostrano) una farsa sanguinosa, come se nessuno si fosse accorto che in Medio Oriente la democrazia non esiste, nemmeno tra i Paesi nostri tradizionali alleati e amici. Ma certo non può essere elusa la questione di un’equa ed equilibrata rappresentanza tra i gruppi, in Paesi che, come appunto Siria e Iraq, sono multietnici e multiconfessionali. Sia in Siria sia in Iraq, infine, la corruzione diffusa e l’iniqua spartizione delle risorse del Paese alimentano una frustrazione popolare pronta, come abbiamo visto in Siria nel 2011 e in Iraq l’anno scorso, a trasformarsi in protesta e contestazione.
Le decine di missili sparati contro la base americana a Erbil (Kurdistan iracheno) e le decine di uomini delle milizie sciite Hashd al-Shaabi (Forze di mobilitazione popolare) uccise poco a nord di Baghdad ci dicono almeno una cosa dell’Iraq. Gli jihadisti si sentono forti e infatti mirano al bersaglio grosso, alle forze che in Iraq oggi sono decisive: gli Usa, appunto, e l’Iran. Dobbiamo quindi aspettarci altre azioni di questo genere, il che non è certo una buona notizia, per di più a poche settimane dalla visita in Iraq di papa Francesco.
La Casa Bianca ha ordinato una rappresaglia con bombardamenti aerei sulla Siria orientale il 25 febbraio e anche la Nato ha deciso di reagire. La sua Missione di addestramento, aperta nel 2004 e centrata sulla base di Ar-Rustamiyah, a sud di Baghdad, passerà da 500 a 4 mila uomini, incaricati di formare gli uomini delle forze armate irachene. Sono state le stesse fonti Nato a dire che una missione multinazionale (l’attuale comandante è un generale danese) può essere meglio accetta di un contingente americano. E d’altra parte, la stessa Training Mission era stata in qualche modo «surgelata», per non destare ulteriori tensioni, dopo l’assassinio del generale iraniano Qasem Suleimani, ucciso proprio a Baghdad da un drone Usa il 3 gennaio del 2020. Nell’insieme, un ottimo esempio di come, in Medio Oriente, l’Occidente non faccia altro che rincorrere i propri errori.
Resta in ogni caso sul tavolo il problema eterno della lotta al terrorismo islamista. Due cose ormai sappiamo con certezza. La prima è che non gli mancheranno mai gli uomini. La seconda è che sconfiggerlo sul piano culturale e ideologico richiederà moltissimo tempo, sempre ammesso che ci si riesca. Combatterlo sul campo, eliminare le sue forze armate, è quindi inevitabile, prima ancora che necessario. Ma non sarà mai sufficiente se, nello stesso tempo, non si taglia il cordone ombelicale dei finanziamenti che lo animano e lo indirizzano. È il denaro la linfa vitale delle armi, non il contrario. E tutti noi sappiamo benissimo da quali Paesi, a volte avversari ma ancor più spesso alleati, partano quei soldi.